La sezione intende offrire una panoramica sui territori delle Medical Humanities: congressi, istituzioni, pubblicazioni, film, cronache. Essa ospita, inoltre, le considerazioni di specialisti in merito ad articoli apparsi su altre testate. Questo spazio riproduce i contenuti della versione cartacea della pubblicazione; i contributi non legati alla periodicità del cartaceo si trovano invece nella sezione
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«Niente ormoni niente cancro»
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L’Espresso
12 Gennaio 2007
Quando gli uomini scrivono di salute della donna corrono sempre il rischio di perdere di vista qualche aspetto importante. Il giornalista del celebre settimanale italiano riporta con enfasi «verde» ed ecologista la notizia statunitense secondo cui il calo dell’incidenza del cancro della mammella, che si è registrata nel 2003, è sostanzialmente dovuta al fatto che le donne americane hanno quasi smesso di usare la terapia ormonale sostitutiva (la TOS in sigla) in menopausa.
La notizia, in effetti, è più che degna di nota. Sia perché proviene dal centro di epidemiologia del MD Anderson di Houston, uno dei «templi» dell’oncologia mondiale, sia perché è stata presentata per la prima volta al congresso di San Antonio – forse la più importante conferenza mondiale sulla ricerca sul cancro al seno – da uno studioso come Peter Ravdin, da anni apprezzato e stimato nell’ambiente. Di cosa si tratta? Gli autori dello studio hanno esaminato i dati di incidenza del carcinoma mammario raccolti come ogni anno dal National Cancer Institute e hanno notato che il numero dei nuovi casi nel 2003 è stato di 14 mila unità inferiore rispetto all’anno precedente, un calo del 15% in circa 18 mesi. Che cosa può aver determinato una simile variazione? Il pensiero degli epidemiologi è andato subito al fatto che «dal luglio del 2002 ha cominciato a crollare il consumo degli ormoni per la menopausa da quando il celebre studio Women’s Health Initiative ha dimostrato che quelle pillole aumentano il rischio di cancro al seno, oltre che di infarto, di ictus e di altri malanni», recita la rivista italiana, aggiungendo, in tono bacchettone, «e poi c’è anche chi ha il coraggio di parlar male della prevenzione!».
In realtà, chi si occupa quotidianamente di cancro della mammella qualche perplessità ce l’ha. La prima – e la più rilevante – è quella dei tempi. Tutti sanno che la cancerogenesi è un processo biologico molto complesso e lento. Ora, se è ampiamente dimostrato che gli ormoni sessuali femminili e soprattutto gli estrogeni possano avere un effetto cancerogeno sulla ghiandola mammaria, è anche ben noto che tale processo richiede tempo per i vari passaggi dalla displasia alla metaplasia fino alla neoplasia. Possibile che un anno sia stato sufficiente?
La seconda riguarda le differenze che sempre si riscontrano nel confronto USA-Europa. Da noi, e soprattutto nell’area latina, le modalità di somministrazione della TOS sono molto diverse, sia in termini di dosaggio, sia per il fatto che l’applicazione transdermica (il famoso «cerottino») è prevalente rispetto a quella in pillole. Un po’ come con le automobili, gli americani hanno inventato i SUV e noi la Cinquecento, due modi molto diversi di spostarsi... A voler continuare nel paragone invece – seguendo l’impostazione del giornalista de l’Espresso – dovremmo dire che siccome i SUV inquinano, occupano troppo spazio e consumano troppo dovremmo abolire le automobili e tornare ad andare a piedi.
Il nodo, infatti, sta proprio qui: nel fatto che sia il ricercatore americano sia il giornalista italiano sono entrambi uomini e certo non hanno alcuna idea di che cosa comporti la menopausa, di che cosa siano le vampate di calore che ti possono svegliare anche di notte, il senso di malinconia che sfiora la depressione, la secchezza vaginale che rende dolorosi i rapporti sessuali, ecc. (anche chi scrive non ha diretta esperienza di questi fenomeni, ma se li sente raccontare ogni giorno in ambulatorio e non può quindi pretendere che non esistano). Facile per loro concludere: donne, volete ammalarvi di meno di cancro al seno? Non usate più ormoni quando entrate in menopausa. Che è appunto un po’ come dire torniamo alle biciclette perché le auto inquinano, invece di porsi la questione in modo costruttivo e cercare di togliere dalla terapia ormonale i suoi effetti collaterali dannosi. Insomma, giusto tenere sotto tiro la medicalizzazione dei disturbi che accompagnano le nostre vite, ma se la menopausa l’avessero gli uomini?
Alberto Costa
In Memoriam. Dove vanno a morire gli elefanti?
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A Alberto
È molto difficile che la maestosità e la regalità del più grande mammifero terrestre non ci colpisca.
Non a caso suscita sempre scalpore e successo negli spettacoli circensi, e di questo gli abili ammaestratori sono ben consapevoli. Una montagna vivente di tre o quattro tonnellate, capace di strabilianti e incredibili esibizioni circensi, in grado di colpire gli spettatori per la sua aggraziata delicatezza.
Lo sanno bene anche in alcuni paesi orientali, dove l’elefante è considerato al pari di una divinità (minore) che si colloca in una dimensione tra l’utile e l’indispensabile. Un binomio sociale, uomo-animale, che ben si colloca in un concetto storico sociale e d’autorità in molte culture orientali. Un «collaboratore» difficilmente sostituibile per forza e duttilità. Ma anche nella nostra cultura occidentale (primo mondo), l’elefante ha avuto storicamente un ruolo importante. Da Annibale, con l’attraversata delle Alpi, fino alla prima guerra mondiale con l’utilizzo come mera forza di lavoro (Inghilterra). Per noi, invece, figli del XX e XXI secolo, ha avuto appunto vita solo negli spettacoli circensi o nei parchi zoologici. Ma dove vanno a morire gli elefanti? Nessuno lo sa! Ciò che sappiamo è che gli elefanti, come alcuni altri animali, quando sentono giunta la propria ora tolgono il disturbo, proprio per non pesare sull’economia sociale del microcosmo del gruppo. Intraprendono il cammino verso il luogo segreto per unirsi a chi li ha preceduti. Esistono alcuni luoghi segreti, solo alcuni studiosi e ricercatori ne sono a conoscenza, ma forse per rispetto non li divulgano. Un’altra ricerca ha invece dimostrato come nei luoghi segreti deputati alla morte, gli elefanti arrivando siano in grado di attuare «cerimonie commemorative».
Vi sono alcune analogie tra la vita degli elefanti e chi si occupa di assistenza. Figure invincibili per i più, persone capaci di grandi sforzi fisici e mentali per chi ci vive dentro. Qualcuno ha mai sentito dire di un infermiere o di un medico malato come soggetto di discussione tra le persone? Qualcuno ha mai visto dove soffre un infermiere o muore un medico? Forse anche questo è un punto che rende comuni questi due esseri viventi.
Ho conosciuto Alberto circa vent’anni fa, in un ospedale italiano, dove lui svolgeva la professione di infermiere di area critica e dove io, invece, mi formavo come infermiere. Come per altri, godeva da parte mia di ammirata considerazione. Il suo possente e sicuro portamento tra le corsie d’ospedale confermavano, nel mio immaginario, essere persona preparata e capace. Molte leggende si narravano sul suo conto, tra noi allievi della scuola infermieri, come solo succede a chi gode di particolari attenzioni o considerazione da parte di chi può solo ammirare. Il primo ricordo di quando lo vidi è legato a un paziente politraumatizzato che Alberto assisteva da solo con manovre decise e sicure. Mi pareva allora, l’espressione di un capace infermiere di area critica. Altre volte lo incontrai in ospedale, altre fuori dalle mura nosocomiali.
Lo rincontrai all’Ospedale Civico, qui a Lugano. Continuammo ad avere lo stesso rapporto, di rispetto fatto anche solo di un saluto o qualche volante «battuta».
Questo era anche Alberto, una persona alcune volte «ingombrante», professionalmente parlando, perché sapeva e sapeva fare e se esisteva qualche difficoltà il suo pensiero era tenuto in considerazione. L’ho visto soffrire, in silenzio. Alberto non era certo il tipo di persona da lamentarsi della sua situazione. «Bastardoma» era il nome che aveva deciso di dare alla malattia che lo stava divorando. Anche in quel frangente è rimasto fedele all’immagine forte a cui ci aveva abituato in tutti questi anni. Ora Alberto è rimasto nelle nostre menti un ricordo e un pensiero. Dove sia andato non si sa, ha capito il momento e si è ritirato «togliendo il disturbo», lasciandoci un’ingombrante eredità, fatta di trasparenza e genuinità. Fedele al mistero che avvolge la nostra morte, ci ha solo preceduto.
Stefano Padovese
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