Rivista per le Medical Humanities

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La sezione intende offrire una panoramica sui territori delle Medical Humanities: congressi, istituzioni, pubblicazioni, film, cronache. Essa ospita, inoltre, le considerazioni di specialisti in merito ad articoli apparsi su altre testate. Questo spazio riproduce i contenuti della versione cartacea della pubblicazione; i contributi non legati alla periodicità del cartaceo si trovano invece nella sezione «Novità» di questo sito.


«Le VIH, apprenti porteur de bons gènes»
rMH 5
Le Monde, 15 novembre 2006


Può l’agente della «peste del XX secolo» diventare un’ancora di salvezza per gravi malattie genetiche? L’HIV appartiene alla famiglia dei retrovirus, la cui caratteristica principale risiede nella capacità di riscrivere l’acido ribonucleico (RNA) con l’aiuto dell’enzima retrotrascrittasi, trasformandolo in acido desossiribonucleico (DNA) provirale. Il DNA provirale trova la strada nel nucleo di determinate cellule, in particolare i linfociti CD4 positivi, per poi essere integrato nel patrimonio genetico umano. Da qui l’idea di trasformare l’HIV in un vettore in grado di trasportare geni utili all’uomo in cellule bersaglio. L’équipe di ricercatori guidata dal Prof. Pierre Charneau (Istituto Pasteur di Parigi) ha scoperto una proprietà particolarmente interessante dell’HIV che potrebbe renderlo il candidato ideale per correggere le patologie caratterizzate dalla presenza della versione difettosa di un gene.
La scoperta consiste in una specifica sequenza di DNA provirale («DNA flap») implicata nel trasporto del DNA dell’HIV all’interno del nucleo della cellula infetta. In passato si riteneva che il DNA provirale potesse essere trasportato solo nel nucleo di cellule in fase di divisione o comunque con una membrana nucleare disaggregata. Per contro, grazie al «DNA flap», il DNA dell’HIV è in grado di penetrare anche nei nuclei di cellule che non si dividono. Questa proprietà rende l’HIV un candidato interessante per il trasporto di geni «buoni» all’interno di neuroni, cellule epatiche e cellule staminali del midollo osseo. In passato si sperava di poter usare come vettori gli adenovirus, pure essi in grado di infettare cellule non in fase di divisione. Purtroppo i geni dell’adenovirus trasferiti nella cellula umana provocano una reazione del sistema immunitario con conseguente eliminazione della cellula «curata». Nel caso dell’HIV trasformato in vettore, si conservano solo le componenti prive di informazione genetica virale (ca. 10% del virus originale) e solo il gene terapeutico supera la membrana nucleare per integrarsi nel cromosoma della cellula bersaglio.
La terapia genica promette di correggere gravi difetti genetici, come ad esempio l’immunodeficienza combinata severa del neonato, una condizione fino ad oggi rapidamente fatale. Finora la terapia genica ha però vissuto momenti alterni con successi negli studi preliminari e fallimenti in tentativi successivi. Uno dei limiti della tecnica attuale risiede nel numero limitato di cellule (di regola < 5% delle cellule bersaglio) in cui è possibile apportare la correzione desiderata inserendo il nuovo gene. Dato che i vettori retrovirali sono in grado di trasferire un determinato gene in ben il 90% delle cellule staminali ematopoietiche, l’utilizzo dell’HIV opportunamente modificato e reso inoffensivo per l’uomo potrebbe rappresentare un salto di qualità nella controversa terapia genica.

Enos Bernasconi  

«Des chercheurs ont trouvé comment tarir la source du cancer du cerveau»
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Le Temps, 25 gennaio 2007


I gliomi cerebrali maligni sono i più frequenti tumori primitivi del cervello, presenti in tutte le età, ma soprattutto tra i 35 e i 65 anni, e per i quali le terapie disponibili sono soltanto palliative. La sopravvivenza media, nelle forme più aggressive (IV grado), è di un anno, malgrado l’intervento chirurgico, la radio- e chemioterapia, e altre terapie complementari. Anche nel settore della neuro-oncologia gli ultimi anni hanno visto un progresso continuo: sono migliorate le tecniche chirurgiche, sono state introdotte nuove terapie adiuvanti, si è assistito a una rivoluzione nella diagnostica per immagini e si è giunti a una migliore comprensione della intricata biologia dei tumori e degli eventi molecolari e genetici alla base del loro sviluppo. Ma curare un paziente portatore di un glioma cerebrale maligno presenta difficoltà insormontabili: nessun trattamento finora si è dimostrato risolutivo. L’articolo pubblicato su Le Temps offre uno spunto interessante per una riflessione più ampia sull’informazione medica e più precisamente nel campo della neuro-oncologia. I successi delle tecnologie mediche e biologiche di quest’ultimo mezzo secolo hanno talmente cambiato le prospettive di vita da indurre a credere che la scienza moderna sia in grado di sconfiggere il male, di vincere la morte o, comunque, ritardarla senza limiti. Successi reali della ricerca di base in neuro-oncologia o piccoli passi avanti nella comprensione dei meccanismi biologici delle cellule tumorali del Sistema Nervoso Centrale sono venduti dai mezzi di comunicazione (e sicuramente complice anche la comunità scientifica) come conquiste risolutive verso la guarigione di questo cancro, verso la lunga vita, quale che sia la sua qualità. Terapie geniche vengono date come dietro l’angolo, e invece sono ancora lontane dal poter essere realizzate per curare tutte le malattie. Se la medicina premoderna non salvava molti pazienti, quella moderna, nonostante i progressi compiuti (vaccini, antibiotici, farmaci, sterilizzazione, migliore igiene ecc.), non li salva certo tutti.
Un preoccupante analfabetismo scientifico impedisce a chi produce informazione e a chi legge di discernere, di distinguere le opinioni fondate da quelle infondate, di decidere su argomenti che riguardano la salute e quindi il vivere. È come se mancasse una grammatica per saper leggere i fenomeni, per affrontarli con consapevolezza e interpretarli.
Da un lato la comunità scientifica non è stata capace di darsi un ruolo di comunicazione e la medicina ufficiale si è rivelata sempre più malata di tecnicismo. Dall’altro lato si evidenzia un’impreparazione culturale dove la scienza e lo studio del metodo scientifico passano in secondo ordine rispetto alla cultura umanistica e ai movimenti di pensiero. L’informazione spesso non rende conto della fatica, delle prove e degli errori del procedere conoscitivo della scienza, tende a confondere le speranze con i fatti, puntando sul sensazionalismo, non aiutando a riflettere e quindi a capire.
All’informazione si deve chiedere equilibrio, competenza, completezza, obiettività, specialmente quando essa tocca un argomento come il cancro, uno degli incubi della società moderna. La scienza, e in questo caso la medicina, suscita grandi aspettative, forti emozioni e anche timori irrazionali. La scienza è molto di più di un corpo di conoscenze, è un modo di pensare. Ci invita a tener conto dei fatti anche quando non si conciliano con i nostri preconcetti. Ci esorta a mantenere il delicato equilibrio fra un’apertura senza restrizioni a nuove idee e l’esame rigoroso di qualsiasi proposta: sia delle nuove idee sia del sapere stabilito. Il metodo scientifico si basa su ipotesi formulate, sulla verifica, la validazione o confutazione delle medesime.

Duccio Boscherini

È morto André Gorz
rMH 5


Non conoscevo il filosofo André Gorz prima di leggere del suo suicidio sui giornali, e non posso dire di conoscerlo nemmeno ora, a qualche mese di distanza. Non ho studiato le sue Metamorfosi del lavoro, né il suo Addio al proletariato. Forse ho sfogliato alcuni dei suoi articoli sul Nouvel Observateur. Come molti, ho letto soltanto il suo ultimo scritto, Lettre à D. Histoire d’un amour.
D. sta per Dorine e André Gorz sta per Gerhard Horst. Gerhard Horst, emigrato in Svizzera dopo l’annessione dell’Austria e Dorine, una giovane attrice inglese, si incontrano a Losanna, durante una partita a poker, nel 1947. Si sposeranno due anni più tardi. Il 22 settembre 2007 i corpi senza vita di Dorine, che soffriva di una malattia iatrogena degenerativa e di André Gorz vengono trovati uno accanto all’altro, nella loro casa a Vosnon. I suicidi illustri rievocano fatalmente altri suicidi eccellenti, e il suicidio a due non può che acutizzare questa tendenza a rintracciare insigni precedenti. Così, come per un riflesso condizionato, questo doppio suicidio è stato assimilato a quello di Heinrich von Kleist e Henriette Vogel, di Laura Marx e Paul Lafargue, di Stefan Zweig e Charlotte Altmann, di Arthur Koestler e sua moglie Cynthia. Ma lo stesso Gorz aveva sconfessato in un’intervista a Michel Contat una qualche analogia con quest’ultima vicenda e, tacitamente, con tutte le altre: «Abbiamo parlato di questo suicidio a due, quando lo abbiamo saputo. Ma era la loro storia, quasi la loro battaglia. Non ci penso, e neppure lei. Dorine e io viviamo nell’infinito dell’istante, sapendo che è finito, e va bene così. Per noi, basta il presente» (M. Contat, Le Monde des livres, 26 ottobre 2006). Benché contesti esplicitamente qualsiasi coincidenza con altre storie, nella sua Lettera a D.Gorz riformula, forse involontariamente, una vicenda mitica: quella di Filemone e Bauci, raccontata da Ovidio nelle Metamorfosi. Quando gli dei, in cambio dell’ospitalità ricevuta, chiedono alla generosa coppia di esprimere un desiderio, Filemone risponde: «Ci porti via la stessa ora: non voglio vedere la tomba di mia moglie e non voglio essere sepolto da lei. Il desiderio fu esaudito. Sfiniti dagli anni [...] Bauci vide Filemone coprirsi di fronde e il vecchio Filemone coprirsi di fronde Bauci. Mentre già una cima cresceva sui loro volti, finché poterono continuarono a scambiarsi parole «addio, amore» – dissero insieme, e insieme la scorza li coprì e li nascose: ancor oggi i Bitini mostrano due tronchi vicini che derivano dal doppio corpo» (Ovidio, Le Metamorfosi, VIII, 709-720, Mondadori, Milano, 2007, pp. 369-71). La lettera di Gorz è il medesimo sussurro pronunciato all’orecchio del figlio di Saturno. Dopo aver illustrato la vita in campagna con la moglie malata – uno stile di vita modesto e ospitale, che ricorda quello della coppia frigia – il filosofo rivela: «Non voglio assistere alla tua cremazione; non voglio ricevere un vaso con le tue ceneri [...]. A ognuno di noi piacerebbe non dover sopravvivere alla morte dell’altro. Ci siamo spesso detti che se, per assurdo, avessimo una seconda vita, vorremmo passarla insieme» (A. Gorz, Lettre à D. Histoire d’un amour, Galilée, Paris, 2006, p. 75). Solo due pagine prima, Gorz, che firmava i suoi articoli sul Nouvel Observateu rcon lo pseudonimo di Michel Bosquet, ossia boschetto, aveva scritto di aver «piantato duecento alberi».
Sullo sfondo delle Metamorfosi, l’epilogo della Lettera a D. e della vita dei coniugi Gorz non annuncia più un duplice suicidio, ma piuttosto il tentativo di afferrare e creare una seconda vita. Amare non significa soltanto non voler più «secondo la formula di Georges Bataille, rimandare l’esistenza a più tardi» (Ibidem ). Non significa soltanto rifiutare la sopravvivenza, ma vivere nell’altro e attraverso l’altro, in una coincidenza assoluta, infinita. E il tentativo di afferrare con un unico gesto entrambe le vite non è che lo sforzo di trasformare la possibilità della propria sopravvivenza in una seconda vita.

Chantal Marazia  

L'ospedalizzazione in Gran Bretagna è come fare il bungee jumping
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Sono dati sconcertanti quelli emersi da una ricerca sugli errori medici condotta da Trevor Sheldon e pubblicata sul British Medical Journal: ogni anno oltre 90 mila morti, tra l’8 e il 10% delle degenze ospedaliere. Tra gli errori più comuni: la mancanza di somministrazione di fluidificanti del sangue a pazienti a rischio di emboli, i ritardi nella diagnosi di un tumore e gli svariati errori commessi in sala operatoria. Secondo il ricercatore dello studio: «Una degenza ospedaliera è più o meno rischiosa quanto il bungee jumping, ma molte meno persone scelgono di fare il bungee jumping e di certo non si va all’ospedale per divertirsi. Il problema forse è che l’enfasi sta tutta nella velocità e nelle nuove tecnologie e non abbastanza sulla sicurezza e sulla qualità delle cure». Ma come fare per almeno ridurre il numero di questi errori? Secondo Sheldon: «un migliore addestramento ed una migliore comunicazione tra i membri dello staff ospedaliero».

Martina Malacrida  

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