La sezione intende offrire una panoramica sui territori delle Medical Humanities: congressi, istituzioni, pubblicazioni, film, cronache. Essa ospita, inoltre, le considerazioni di specialisti in merito ad articoli apparsi su altre testate. Questo spazio riproduce i contenuti della versione cartacea della pubblicazione; i contributi non legati alla periodicità del cartaceo si trovano invece nella sezione
«Novità» di questo sito.
Castello Sforzesco
Milano
12 febbraio - 6 aprile 2008
Ci sono verità che non si possono scrivere, ma si devono far vedere.
Ci sono tragedie che ammutoliscono, che congelano le
parole, ma che possono cercare una forma, forse un senso sulla
tela, dove viene istituito un mondo originale ed offerta una
prospettiva di speranza. Anche se la tela è nera come quella di
Dobrzanski e anche se la tragedia, come quella del Vajont
(Vajont è il titolo dell’olio su tre tavole di legno, tre metri per sei,
1964, che rapisce per la sua ipnotica apocalissi), sembra consentire
solo la pietà di una deposizione e di una sepoltura attonita,
glaciale.
La nostra rivista, che intende fornire materiali e spunti di formazione
per un «medical humanist», ha finora valorizzato soprattutto
l’apporto di cinema e letteratura, ma ha altresì la possibilità
di lasciar emergere la potenza di altre esperienze artistiche
nel ridescrivere mondi e tempi in cui il disagio di vivere e la cura
(cura, che anche il gesto estetico a suo modo produce) vengono
rappresentati. È questo il motivo per cui ci avviciniamo ad un
pittore come Dobrzanski.
La contestazione sociale, che muove altri grandi artisti come
Varlin, incarna un sentimento di indignazione per le ingiustizie
economiche e le atrocità della guerra, di ripugnanza per l’egoismo
(L’avvocato, 1951), di denuncia per la cooperazione colpevole
degli uomini di scienza (I fisici, 1966) e assieme di solidarietà
con gli ultimi (gente di circo, di cabaret, di night, di migrazione,
di manicomio). Questi contenuti si riflettono in uno stile pittorico
che custodisce la potenza espressionistica nordica e cerca lenimento
nella contemplazione paesaggistica (Bunker, 1956, col
mare sullo sfondo) perseguìta nel solco del tonalismo lombardo
(Piante sul lago, 1954) o nella meditazione sulla fine (Fiori appassiti,1963).
La figura (quella umana, quella naturalistica)
resiste anche attraverso l’esperienza dell’informale e si costruisce
attraverso una materia tenace, ispessita, scultorea, in cui
esplodono colpi di luce inattesi, che svelano mura, case, corpi in
formazione, residuati bellici, carni animali (Toro squartato,1958).
Materiali di scarto vengono portati sulla tela, fatti aderire
ad essa e questa opacità consente l’emergenza di un’illuminazione
interna, più etica che sensoriale. Come se il caos, la casualità,
il destino volessero accendere un’ansiosa ricerca di verità
e attendessero dal pittore il gesto di una partecipazione. Non per
consolare o camuffare il pessimismo, ma per attrarre la sua simpatia,
la sua cura, la sua dedizione, il suo urlo di prossimità.
Chi abbia avuto la possibilità di fruire di questo lungo itinerario
artistico, svoltosi tra l’Italia e la Svizzera, avrà potuto vedere
documentata l’evoluzione pittorica di un pittore «dell’uomo»,
Dobrzanski appunto, nato a Zugo nel 1914 e morto a Gentilino
nel 1997, uno dei protagonisti delle correnti svizzere del ’900,
ma segnato da un’intensa fase formativa nella Milano di «Corrente»
e da profondi rapporti con artisti italiani come Morlotti,
Giunni, Chighine. Figlio e nipote di fotografi professionisti, di
origini polacche, Dobrzanski, per la potenza della sua attualissima
visione, e per i tentativi di portare a immagini, e quindi di
«addomesticare» nelle sue opere, la tragedia che lascia attoniti
e il male che devasta l’alleanza fra gli uomini, merita di venir
considerato come un «filosofo di immagini», che grandi registi
e letterati potranno utilizzare e che ciascuno di noi, lettori e fruitori
appassionati, potrà assimilare nella sua maturazione antropologica.
Paolo Cattorini