Queste immagini sono parte
di un più ampio lavoro realizzato
nella city di Buenos Aires tra
il marzo e il giugno 2021,
durante i confinamenti imposti dalle autorità
per contenere la pandemia.
L’uso di una camera fotografica analogica
di grande formato è funzionale a un progetto
artistico basato sulla lentezza
e l’attenzione prolungata dello sguardo.
Sono io dunque al principio della fila
primo anello del male
che non può incolpare sconosciuti
alle sue spalle o imprecare al destino
crudele appostato in quel punto a quell’ora;
nessuno prima di me, nessuna ragione
a spiegarmi l’effetto del caso
il fiele degli Dei.
Pulsa dentro di me una natura misteriosa
biologico labirinto senza uscita
zecche microbi virus nel pelo dei porci
peste di ratto sangue infetto di scimmie lontane
genomi deformi maledizioni prive di nome;
sono qui per fare da monito odioso e da tramite
per ricordare a ciascuno il mistero del corpo
l’altro viso della gioia.
Sono il paziente zero lo zefiro traditore
l’uomo bestia da temere
la vittima e il boia.
Questa poesia è stata scritta alcuni anni fa, ben prima della pandemia, ed è poi diventata parte di una poesia più lunga pubblicata nel volume
Cenere, o terra, del 2018. Mi aveva colpito, leggendo non so più quale saggio scientifico, proprio l’espressione «paziente zero», che allora non avevo mai sentito; e l’orizzonte che quell’espressione sembrava schiudere. Un orizzonte dominato dal caso, dal mistero; ma anche dall’assenza (di un senso, di una spiegazione o di una giustificazione), e dalla presenza (della malattia, della colpa anche, di chi è suo malgrado investito di un ruolo, quello dell’iniziatore, dell’untore). Tutte cose che in quegli anni avevano per me un valore più d’immagine che di realtà: tant’è vero che nel libro citato, al titolo fa seguito un sottotitolo: «Appunti sulla poesia». Come se l’immagine della malattia infettiva riguardasse anche gli effetti della scrittura poetica, con il sovvertimento della coscienza che il linguaggio artistico può provocare (e forse entrava in questo vago ragionamento anche la memoria di una celebre battuta di Freud, sul piroscafo che lo conduceva insieme a Jung verso gli Stati Uniti: «Andiamo a portare la peste», o qualcosa del genere).
Due anni dopo, il «paziente zero» ha assunto i tratti di un fantasma familiare che ha attraversato i giorni di tutti noi, con le drammatiche conseguenze che sappiamo. E tuttavia qualcosa, dello stato d’animo che ha mosso allora la penna, mi sembra sopravvivere: nel nostro oggi, e nelle immagini di Minelli, in questa Buenos Aires che potrebbe anche essere Milano o Zurigo, colta in un momento di sospensione, di vuoto, di silenzio, dove perfino i grandi pannelli pubblicitari si sono azzittiti. Anche in queste immagini le coppie oppositive che ho prima richiamato, l’assenza e la presenza, il pieno e il vuoto, l’inquietudine e la bellezza, si accampano nitide e sfuggenti. Come se, sotto l’effetto devastante della pandemia, la forma stessa del nostro vivere ci apparisse in una luce diversa, come guardata da una lontananza in grado di accecare. Le strade della città sono tutte lì, senza di noi; serbano traccia della nostra presenza, della nostra più che possibile, definitiva assenza.
Fabio Pusterla