Rivista per le Medical Humanities

Si tratta di uno «spazio espositivo» che arricchisce mediante illustrazioni ogni numero della rivista. Troverete pubblicati in questa sezione solo una fotografia di ciascun autore e il commento alle immagini proposte all'interno del numero. La pubblicazione integrale del portfolio la riserviamo, infatti, ai lettori e agli abbonati della versione cartacea della nostra rivista.

nota di Fabio Pusterla

Fotografia di Reto Rigassi



          Bastano due date concrete e una immaginaria, per accostarsi ai ritratti dialoganti di Reto Rigassi; tre date intervallate da un secolo, di cui la seconda e centrale sarà quella fondamentale, il territorio attraversato dalla ricerca dell’artista. Ma dalle altre due date, distanti cento anni esatti dalla precedente, sale e scende una luce particolare, inquietante, che ci aiuta a capire meglio i ritratti e a decifrare le reazioni profonde che suscitano in noi.
          Ma cominciamo dalla data più importante, quella del 1918-19, gli anni in cui, in un’Europa devastata dalla guerra, prendeva a dilagare una terribile epidemia di influenza, la famigerata spagnola, che avrebbe fatto 50 milioni di morti in tutto il mondo. Reto Rigassi, anni or sono, aveva fotografato 134 ritratti funebri di altrettante persone, in parte uccise dal morbo, in parte morte per altri motivi nello stesso periodo; ritratti rinvenuti nei cimiteri del Locarnese e delle valli superiori. Piccole fotografie tombali, ultime immagini di chi è definitivamente scomparso e sceso nel gorgo, ricondotte alla luce quasi un secolo dopo e poi esposte, nel 2009, nella chiesetta sconsacrata di San Rocco a Losone, nel modo di cui si dirà. La scelta del luogo di quella installazione non era evidentemente casuale: San Rocco, il santo taumaturgo che protegge dalla peste, dalle epidemie e dalle catastrofi. Accanto a lui, sui muri della chiesetta, appare un suo predecessore, San Sebastiano: se Rocco è un santo medioevale, vissuto nel XIV secolo, Sebastiano riporta ai primi secoli del cristianesimo, alle purghe di Diocleziano, in una fuga di secoli impressionante.
          La peste, le pandemie, la guerra, le catastrofi: parole e immagini che ci riportano drammaticamente al nostro presente, all’emergenza sanitaria di questo inospitale 2020, all’ansia generale indotta dal virus, all’improvvisa evidenza della nostra fragilità: individuale, certo, ma anche collettiva e sociale. Come la cosiddetta spagnola di un secolo fa (su cui si può leggere oggi il bel saggio di Rosario Talarico, contenuto nel volume miscellaneo Ribellarsi per avanzare. Lo sciopero generale del 1918 in Svizzera e in Ticino, Bellinzona, Fondazione Pellegrini Canevascini, 2019), anche la COVID-19 ha portato a galla le contraddizioni e i limiti di un modello di vita e di sviluppo economico-politico, sanitario e sociale. E quante volte, in questi mesi, si è sentito proporre, a proposito e a sproposito, il parallelismo tra la nostra situazione attuale e quella del 1918-19. Eccola, la luce cupa che illumina retrospettivamente i ritratti, che suggerisce un legame misterioso e pietoso tra quei volti e i nomi dei morti odierni, tra quelle immagini calcinate nel tempo e quelle che giungono a noi dai televisori e dai computer: camion militari che portano lontano le bare del Bergamasco, i cui cimiteri sono ormai intasati, pagine di giornale stipate di annunci funebri, percentuali e grafici desolanti.
          Secondo la ricostruzione storica di Rosario Talarico, i morti in Ticino furono, nel solo autunno 1918, quasi un migliaio; di fronte a questa cifra, i 134 ritratti rappresentano una percentuale importante; e anche la loro provenienza non è priva di significato, se proprio nei comuni più poveri e discosti l’influenza ebbe gli effetti più devastanti. Certo, non tutti furono contagiati dalla spagnola; ma, allora come oggi, e forse allora più di oggi, chi può definire con esattezza le ragioni di una malattia mortale?
          E proprio nel piccolo cimitero di uno di questi comuni, a Niva in Valle di Campo, una lapide ci proietta verso la terza data, ancora più antica, da cui un altro raggio di luce giunge fino ai ritratti. Di questa lapide, che risale al 1916, sappiamo soltanto il poco che le parole scolpite nel marmo, e ormai sbiadite, rivelano: una tragedia familiare, di cui non conosciamo i dettagli, ha travolto la famiglia Guglielmoni: in soli sette giorni, tra fine luglio e inizio agosto, sono morti Carlo, Virginia e Paola, portati via da un «repentino malore»; e l’unico superstite, «fratello cognato e marito», detta il testo della lapide, scegliendo come epigrafe questi versi:

          Pianta effimera noi!
          Cos’è il vivente? Cos’è l’estinto?
          Un sogno, un’ombra, è l’uomo.

          Da dove vengono queste parole? Sono i versi quasi conclusivi di una celebre ode pitica di Pindaro. Ma ci si può chiedere in quale versione italiana, tra le molte in circolazione, siano approdati alla lapide di Niva. E l’ipotesi più probabile è che questa versione sia stata ricavata dall’epigrafe di un libro famosissimo: la Vita scritta da lui medesimo di Vittorio Alfieri, apparsa postuma, nel 1806: da una «vita» a tre morti, si potrebbe dire. Siamo nel 1916, ma la lapide sbiadita potrebbe anche far pensare erroneamente al 1816 (così è in effetti capitato in un primo momento a chi scrive), riconducendoci all’«anno senza estate» a causa dell’eruzione di un vulcano indonesiano, cioè a quel 1816 di sconvolgimenti, carestie, violenze sociali e, di nuovo, malattie, in un’Europa ancora sconvolta dalle guerre napoleoniche. L’anno in cui in Svizzera viene dichiarata l’emergenza nazionale; ma anche l’anno in cui Mary Shelley inizia a scrivere Frankenstein, cioè la prima rappresentazione letteraria del rapporto contraddittorio e persino nefasto tra uomo e natura.
          Avranno a che fare, le morti di Carlo, Virginia e Paola, con qualcosa di più grande di una sventura familiare? Lo ignoriamo, ma non è impossibile sospettarlo.
          La fragilità umana, dunque, che sale come un fascio luminoso dalla lapide di Niva, si annoda alla fragilità sociale e politica, che dal nostro presente torna a ritroso fino alla dilaniata Europa del 1918, agli inizi del secolo breve e dei suoi cataclismi. E in questo centro nevralgico, pulsante e doloroso, Reto Rigassi sviluppa la sua ricerca artistica: prende i ritratti, entra nella chiesetta di San Rocco, e fotografa di nuovo i ritratti stessi, ora in dialogo con l’ambiente circostante: sopra o dietro i volti dei morti appaiono così nuovi riflessi in cui si scorgono frammenti della vita di San Rocco, di San Sebastiano, frammenti di qualche affresco di Giovanni Vanoni, particolari di stucchi e decorazioni.
          Tutti questi ritratti, visti sui cippi tombali che li ospitano, fanno pensare a storie perdute, a narrazioni impossibili, proprio come quella di Niva, da cui è partito il lavoro di Reto Rigassi. A Moghegno nel giro di tre giorni (tra il 23 e il 26 novembre 1918) sono ghermite dal «crudel morbo» tre sorelle di 21, 25 e 28 anni. Chi erano, cosa sognavano Assunta, Caterina e Ester? Altre tre sorelle scompaiono a Peccia, nel giro di due anni, tra il 1918 e il 1920. La prima si chiamava Clelia, ed è scomparsa all’età di due anni; poco dopo (possiamo immaginare) nasce la sua sorellina, ancora nell’anno della morte, 1918, e i genitori insistono, e la chiamano di nuovo Clelia. Morirà l’anno dopo, poco prima o poco dopo la nascita della terza, chiamata questa volta Sofia, che vivrà a sua volta soltanto un anno. La madre, Maria, vivrà (come? accompagnata da quali ombre?) fino al 1954; il marito Egidio fino al 1921. Nessuna foto a ricordare le tre morticine, nessuna indicazione di morbo crudele. Più in alto, sulla tomba, i nomi e le immagini dei nonni, Modesto e Domitilla. Nomi antichi, oggi in disuso, di cui i ritratti di Reto Rigassi sono ricchi: Prudenza, Elvezio, Isidoro, Severa, Tersilia, Leonilde, Elvira…
          E poi altre immagini, non meno misteriose: fregi tombali, bassorilievi, decorazione allusive: corde, ancore, che probabilmente dicono di viaggi per mare verso terre lontane, emigrazioni dolorose. Le tombe qui dicono e celano, conservano e sprofondano nel tempo.
          Da questo silenzio, da queste sinopie che, come quelle di Giorgio Orelli, conservano vite cadute nell’oblio o prossime a caderci, Reto Rigassi prova tuttavia a proporre un dialogo appena accennato, un gioco d’ombre e riflessi attraverso i secoli e i millenni.
          Cosa ci suggeriscono, infatti, questi immaginari dialoghi tra i morti   del 1918-19, le pareti e il soffitto di una piccola chiesa, il nostro presente, le improvvise scomparse del 1916 a Niva e la proiezione immaginaria verso il 1816? Ognuno potrà provare a rispondere, a registrare le associazioni mentali che i ritratti dialoganti di Reto Rigassi sanno innescare. Di certo, ancora una volta, l’artista riesce a proiettare il dato storico su un orizzonte più vasto e quasi sconfinato, suggerendo sobriamente, con grande risparmio di mezzi, un’apertura, un respiro più ampio, un collegamento tra il destino individuale e la dimensione collettiva, tra il dato cronachistico e il territorio simbolico, tra il fatto biologico («repentino malore», «crudel morbo», «coronavirus») e quello politico-economico (guerre napoleoniche, prima guerra mondiale,   neocapitalismo selvaggio e globalizzato).

Fabio Pusterla

top