I loro occhi ti guardano, sembrano scrutarti attentamente, sembrano volerti chiedere chi sei, sembrano... ma il loro è solo buio. La scienza dice che la loro corteccia cerebrale è morta. Sono figli, sono mariti, sono padri, madri, sono le tante vittime di incidenti stradali, da cadute dal motorino, o investite da un pirata della strada. E ancora, pazienti che non si sono più ripresi dall’anestesia dopo un intervento chirurgico, o ancora, giovani vittime di una dose eccessiva di ecstasy. Sono tanti.
Davide, figlio unico, aveva quindici anni quando fu sbalzato dal motorino. Dal coma allo stato vegetativo, è sempre stato accudito dai genitori. Una fatica morale e fisica durata vent’anni, con viaggi negli Stati Uniti dal guru di turno nella speranza di una terapia che riportasse il loro figlio alla vita normale. Poi la rassegnazione, ma senza mai perdere la speranza, e Davide continuamente assistito, con l’aiuto di volontari, per lavarlo, accudirlo, spostarlo per evitare le piaghe da decubito. La vita intorno a Davide ha ripreso a girare, un figlio resta un figlio sempre, e così, nonostante le condizioni, si sono festeggiati i suoi compleanni, si sono affrontati i lunghi trasporti in un ospedale lontano per un controllo o un piccolo intervento, o la visita dal papa. Sempre con il sorriso sulle labbra, mamma Paola ha continuato imperterrita ad accudire il figliolo fino al suo trentacinquesimo anno di vita-non vita, poi un’improvvisa polmonite l’ha portato via dopo vent’anni in stato vegetativo.
Cristina aveva quattordici anni quando a Bologna venne falciata sulle strisce pedonali all’uscita da scuola. Da trenta vive in stato vegetativo, con il padre anziano rimasto ormai solo, il suo tempo dedicato a lei. Vorrei poter morire mezz’ora prima che accada a lei – ripete Romano, anche quando con alcuni amici festeggia il suo settantaduesimo compleanno, e Cristina, posta nella sua sedia a rotelle, sembra osservare questa ricorrenza, questa quasi festa, affinché la vita continui.
Max, trentotto anni, si è risvegliato dal coma dopo otto anni, quando un giorno, in un attimo di stizza mentre lo accudiva, mamma Lucrezia lo mandò a quel paese. Allora la mano di lui le cinse il fianco ed è ritornato alla vita. I medici non hanno saputo dare una spiegazione scientifica, è più un miracolo che il frutto della scienza, dicono. La sua mente, nonostante il lungo periodo al buio, è lucida, ricorda la sua vita, e gli amici che non l’hanno mai abbandonato, lo portano con loro, anche se non parla, se non riesce a reggere la testa. La sua muscolatura è inesistente e con la fisioterapia si tenta di ristrutturarla, di fargli riacquistare l’uso delle gambe, ma il processo è lento e l’esito è incerto.
Federico è entrato in coma a seguito di un infarto, il sangue non è più arrivato al cervello undici anni fa. Ora vive in una struttura protetta insieme ad altri quaranta nel suo stesso stato. Sonia, la madre, ogni giorno viene a trovarlo per restare con lui tutto il tempo e gli legge Il piccolo principe. Lei gli parla, non importa se lui non risponde. Una volta ha dato segno di vita: ascoltando «Samarcanda», la sua canzone preferita, una lacrima gli ha solcato il viso.
Di storie come queste è piena l’Italia; molte finiscono tragicamente, come il medico di Bologna Mario Migliori, il quale sapeva bene come fare. Non ne poteva più, aveva perso le speranze e, dopo aver scoperto di aver un tumore e poco tempo da vivere, ha dato la morte alla moglie e al figlio in coma da cinque anni e a se stesso. Quel figlio era diventato la ragione di vita per i genitori. Per accudirlo, la madre Isa aveva abbandonato la carriera di pianista. Li hanno trovati insieme sul letto con le flebo attaccate, dove era stato inserito il veleno. Sul biglietto era scritto: «Me ne vado con tutta la famiglia, perché non ce la facciamo più».
I riflettori in questi casi si accendono solo per ragioni di parte, come durante il caso Eluana Englaro, mentre in parlamento è fermo il progetto di legge sul testamento biologico.
Francesco Cito