Disegnato dagli architetti Lu Ban Hap
e Vladimir Bodiansky, il White Building
fu costruito nei primi anni Sessanta
nel cuore di Phnom Penh, a meno di
un miglio dal Palazzo Reale. Composto
da 468 appartamenti per artisti, musicisti,
docenti e impiegati governativi ilWhite
Building doveva essere il nuovo fulcro
di una moderna PhnomPenh ed era
stato ideato nel contesto dell’ambizioso
progetto Bassac River Front di Vann
Molyvann, capo dei Lavori Pubblici dal
1956, anno del suo rientro dalla Francia
dove aveva studiato con Le Corbusier.
Nell’aprile del 1975 i Khmer Rossi
presero il potere, tutto improvvisamente
cambiò e Phnom Penh e il White
Building furono abbandonati. Nel
1979 i vietnamiti liberarono la
Cambogia dal regime di Pol Pot e i
sopravvissuti poterono rientrare nelle
città. Il White Building riprese ad essere
abitato da famiglie spezzate, orfani e
Khmer Rossi fuggiti dalle fila dell’esercito.
Carnefici e superstiti. Oggi il White
Building ospita più di 2500 persone.
Il 2 settembre 2014 il governatore
municipale Pa Socheatvong ne
ha annunciato la controversa
demolizione.
Il White Building rappresenta per me una sorta di silente testimonianza degli ultimi cinquant’anni della Cambogia, una storia fatta di ombre più o meno tacite, di cui tanti faticano a parlare. Attraverso un mio sentire tra le mura di questo edificio lungo quasi mezzo chilometro che una volta è stato il simbolo di una Cambogia moderna, ho cercato di avvicinarmi alla voce sommersa di un paese che stenta ancora a rialzarsi, in bilico tra un passato di cui si vorrebbe cancellare la memoria e un futuro fatto di automobili luccicanti, prostituzione, investimenti immobiliari miliardari, droga, corruzione.
Osservare l’ombra di questa trasformazione è stato un tentativo per capire e documentare la memoria storica cambogiana e pormi infine delle domande sulle conseguenze delle guerre e sul pericolo insito nella loro rimozione. Un milione e seicentomila morti pesano sulle spalle di un popolo che forse, prima di sentirsi a proprio agio in abiti nuovi, aspetta la morte di chi può ancora testimoniare le atrocità.
In un Paese in cui ci si sforza di dimenticare il passato, in cui i vecchi non raccontano ai giovani ciò che hanno vissuto e dove nemmeno i libri di scuola lo fanno, c’è una possibilità che la stessa storia si ripeta?
Carlotta Zarattini