Nel 1997 in una soffitta di Dêbica, nel sud-est della Polonia, vengono ritrovate più di 1200 lastre fotografiche, ciascuna con due ritratti, uno accanto all’altro. Salvo nuovi ritrovamenti, è quello che resta dell’opera di Stefania Gurdowa, attiva con un proprio studio a Dêbica tra il 1923 e il 1937, poi in Slesia, prima e dopo la seconda guerra mondiale. Bisognerebbe conoscere il polacco e svolgere ricerche che io non sono in grado di fare, per dire qualcosa di sensato su quella che appare da subito come una donna eccezionale, soprattutto nel contesto dell’epoca. Dell’opera o di quel che ne resta, invece, si potrebbe parlare a lungo, tanti sono i temi e le questioni che solleva e tanto è il fascino esercitato da queste presenze fantasmatiche, i volti, le acconciature, gli abiti, anche le mani quando rientrano nel quadro.
Come accadeva in quegli anni, una lastra fotografica viene suddivisa in più parti e utilizzata per più esposizioni. Dove noi oggi vediamo dei dittici, è probabile che Gurdowa vedesse innanzitutto due fotografie separate, da ritagliare al momento della stampa e inquadrare con un passe-partout. In altre parole, se per lei – e di sicuro per i suoi committenti – conta il singolo ritratto, per noi oggi si impone la serie, senza che un piano debba cancellare l’altro.
Ma dove sta, allora, l’opera fotografica di Stefania Gurdowa? Le sue fotografie chiedono di essere scelte, ordinate, accorpate e presentate in modi diversi come per esplorare una varietà di significati o comunque di accentuazioni del significato. Mi vengono in mente i
Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau, un libro-dispositivo costituito da dieci fogli tagliati orizzontalmente in quattordici linguette, ciascuna con il verso di un sonetto rimato. Quattordici linguette per dieci fogli fanno un totale di 10
14 combinazioni – e quindi sonetti – possibili, ossia i centomila miliardi di poesie del titolo. Attribuire a una fotografa «da bottega» e per giunta «da bottega di provincia» idee sull’arte fiorite a Parigi trent’anni dopo, è senz’altro un grosso azzardo, eppure è difficile pensare che, maneggiando le sue lastre di vetro, ordinandole nel proprio archivio, Gurdowa non abbia colto e apprezzato questo potenziale combinatorio.
I dittici suggeriscono i temi vertiginosi dell’identità e dell’alterità, del sé e dell’altro, del singolo e della tribù (dei singoli che compongono la tribù e viceversa), degli incontri casuali o meno che fanno le vicende umane. C’è, a legare queste fotografie e a fissarle oltre lo sfarfallio delle fisionomie in continua trasformazione, uno sguardo che sebbene provenga da molto lontano, come la luce della stella polare, ci colpisce per la sua intensità. Qui, in questo sguardo, in questa bocca, nell’espressione severa fin quasi alla trasfigurazione di questi volti, appare qualcosa che trascende sia la tecnica sia i canoni estetici dell’epoca.
In appendice al volume
Negatives are to be stored, pubblicato a Cracovia dalla Fondazione Imago Mundi nel 2008, dopo un’ampia scelta di doppi ritratti del fondo di Dêbica troviamo una foto che potrebbe intitolarsi «La ritrattista ritratta». A differenza degli altri ritratti presenti nel volume, non è un mezzo busto ma una figura intera. Stefania Gurdowa, una donna ancora giovane, posa appoggiata alla «spalla» di una massiccia macchina fotografica sorretta a sua volta da un imponente cavalletto di legno.
E lo sguardo? Com’è lo sguardo? È uno sguardo
à la Gurdowa?
Direi di sì, se non fosse per un alone sentimentale che avvolge la coppia: lei e la macchina fotografica, sulla quale si può leggere la scritta, aggiunta in piccolo con un pennellino, in italiano, «Io... e... mio amante».
Matteo Terzaghi