Trent’anni fa venivano diagnosticati i primi casi di AIDS e incominciava così nel mondo la lotta contro questa malattia, oggi tristemente nota a tutti. In questi tre decenni si è combattuto – il lessico bellico è d’uso – sul piano medico e su quello culturale per arginare la pandemia e per integrare nella società i malati a rischio di esclusione. La solidarietà mondiale si è mobilitata per finanziare la ricerca scientifica e associazioni di pazienti affetti dalla malattia, gruppi di famigliari, artisti, intellettuali e politici hanno avviato un vasto piano di informazione sul rischio di contagio e intrapreso una lotta contro la disinformazione riguardo a quella che è stata definita «la peste del XX secolo».
Oggi le triterapie disponibili nei paesi industrializzati permettono di convivere con l’AIDS, in alcuni casi fin quasi a far dimenticare la malattia e a garantire una vita pressoché normale. Parallelamente la mentalità è evoluta e lo stigma associato alla diagnosi di AIDS non pesa più come allora.
Malgrado questi progressi, la mobilitazione collettiva si sta però lentamente affievolendo e le cifre epidemiologiche sono purtroppo ancora tinteggiate di rosso: stando ai dati di UNAIDS (Global Report 2012), in un anno nel mondo sono morte 1.7 milioni di persone per cause correlate all’AIDS. Si stima che più di 34 milioni di persone della popolazione mondiale siano infette da questo virus, tre quarti dei quali vivono nell’Africa subsahariana. Purtroppo, solo una parte delle persone contagiate – meno della metà – è eleggibile per un trattamento con le triterapie e solo un quarto è attualmente trattato. Alcuni dati sono invece più incoraggianti: nel 2011 sono stati registrati 2.5 milioni di nuovi contagi nel mondo, segnando una diminuzione di 700.000 unità rispetto al 2001. Rispetto al 2005 la mortalità della malattia è invece scesa del 24 per cento.
Non va dimenticato che dietro queste cifre, dietro lo sconforto e le speranze, ci sono volti, corpi e storie. Storie di cittadini che, nonostante siano portatori di una malattia oggi socialmente «accettata», continuano a nascondere dentro di loro questo segreto, concedendosi la licenza di poterlo confidare, e non senza difficoltà, solo a pochi. Storie di rifugiati politici che, curati in paesi occidentali, non possono trovare conforto nella propria terra, attorniati dalla propria famiglia, perché nel luogo da cui provengono non esistono farmaci disponibili e nessuna ONG potrà garantire loro un approvvigionamento delle cure sulla lunga durata. Storie drammatiche, urlanti urgenza vitale, che si possono immaginare guardando le fotografie che Paolo Pellegrin ha realizzato una quindicina di anni or sono in Uganda, Cambogia e Zimbabwe e che purtroppo mantengono tutta la loro drammatica attualità.
Nicola Grignoli