Dal centro profughi di Zurigo veniamo «distribuiti» un po’ ovunque in Svizzera. È in questo modo, del tutto casuale, che arriviamo a Neuchâtel, per l’esattezza a Valangin, dove ci aspetta un appartamento di due locali arredato dagli abitanti del paese. Qualche settimana dopo, comincio a lavorare in una fabbrica di orologi a Fontainemelon.
Mi alzo alle cinque e mezzo. Allatto e vesto la mia piccolina, mi vesto anch’io e vado a prendere l’autobus delle sei e mezzo, che mi condurrà alla fabbrica. Lascio la mia bambina all’asilo nido e entro nella fabbrica. Esco alle cinque di sera. Riprendo la mia bambina dal nido, riprendo la corriera, torno a casa. Faccio la spesa al negozietto del paese, accendo il fuoco (non c’è il riscaldamento centralizzato nell’appartamento), preparo la cena, metto a letto la bambina, pulisco i piatti, scrivo un po’ e poi vado a letto anch’io.
Per scrivere poesie la fabbrica va benissimo, si può pensare ad altro, e le macchine hanno un ritmo regolare che scandisce i versi. Nel mio cassetto, ho un foglio e una matita. Quando la poesia prende forma, prendo nota. La sera metto tutto a bella in un quaderno.
Siamo una decina di ungheresi a lavorare nella fabbrica. Ci ritroviamo alla mensa durante la pausa di mezzogiorno, ma il cibo è così diverso da quello a cui siamo abituati che non mangiamo quasi niente. Da parte mia, per almeno un anno a pranzo non prendo altro che un po’ di pane e caffelatte.
Nella fabbrica tutti ci trattano bene. Ci sorridono, ci parlano, ma noi non capiamo niente.
È qui che comincia il deserto. Deserto sociale, deserto culturale. All’esaltazione dei giorni della rivoluzione e della fuga subentra il silenzio, il vuoto, la nostalgia dei giorni in cui avevamo l’impressione di partecipare a qualcosa di importante, forse anche di storico, la malinconia di casa, la mancanza della famiglia e degli amici.
Ci aspettavamo qualcosa venendo qui. Non sapevamo che cosa ci aspettavamo, ma certo non questo: queste grigie giornate di lavoro, queste serate silenziose, questa vita contratta, senza cambiamenti, senza sorprese, senza speranza.
Dal profilo materiale si vive un po’ meglio di prima. Abbiamo due camere al posto di una. Abbiamo abbastanza carbone e cibo a sufficienza. Ma rispetto a quel che abbiamo perduto, è un prezzo troppo alto.
(…)
Due di noi sono ritornati in Ungheria nonostante la condanna alla prigione che li aspettava. Due altri, uomini giovani e celibi, sono andati più lontano, negli Stati Uniti, in Canada. Altri quattro, ancora più lontano, nel posto più lontano di tutti, oltre la grande frontiera. Queste quattro persone di mia conoscenza si sono uccise durante i primi due anni del nostro esilio. Una con i sonniferi, una con il gas, le altre due impiccandosi. La più giovane aveva diciotto anni. Si chiamava Gisèle.
Agota Kristof