Rivista per le Medical Humanities

Si tratta di uno «spazio espositivo» che arricchisce mediante illustrazioni ogni numero della rivista. Troverete pubblicati in questa sezione solo una fotografia di ciascun autore e il commento alle immagini proposte all'interno del numero. La pubblicazione integrale del portfolio la riserviamo, infatti, ai lettori e agli abbonati della versione cartacea della nostra rivista.

nota di Graziano Martignoni

Fotografia di Cristina Zilioli



          Corpi misurati, pesati, corpi ridotti a cose inanimate e disperse come gusci vuoti sulla battigia di un’esistenza senza più parole, corpi che cercano freneticamente di raggiungere quel luogo in cui la vita e la morte s’incontrano e in cui, nel tragico e disperante splendore di un’effimera vittoria, per un attimo si possa sentire la voce del Nulla, stare di fronte al fragore del Nulla, come  fosse quello di un dio narcisisticamente conquistato e rinchiuso in un corpo-guscio  sempre più esiguo e oramai incapace di ogni trascendenza. È di quel fragore silenzioso,  dietro l’immobilità dei corpi e degli sguardi, che parla dolorosamente la poesia per  immagini di Cristina Zilioli. Una poesia che guarda ed è guardata da quel mondo  inanimato e vuoto, in cui abita l’universo dell’anoressia, in cui sopravvivono quelle  donne i cui occhi sembrano esporsi sui vertiginosi abissi di un’esistenza solo di superficie,  in cui ogni guardare è sfida e sconfitta, ipervisibilità e nello stesso tempo cecità.
           Sguardi che finiscono nel disordine di cibi ammucchiati come scorie del tempo che  non conosce più il domani, perché tutto è risolto nell’incommensurabile potenza di un chicco  di riso rifiutato o ripetutamente soppesato. Il nostro sguardo è allora chiamato ad accogliere  quei corpi i cui volti, nelle immagini della Zilioli, sembrano assenti, cancellati o resi anonimi,  depositati in una lontananza che è sfida e indice di un’irraggiungibilità, corpi come oscuri messaggeri di un mondo in cui nulla era ancora e tutto poteva nascere e morire.  Mai ti sarà possibile, sembrano dire quei pochi sguardi, raggiungerci in quel luogo di delizia e  di terrore, di trasgressione e di punizione, verso cui noi abbiamo iniziato a camminare perdendo  muscoli, forme, peso, anima. Luoghi in cui il tempo diviene cosa, misura, peso, programma di  controllo sul cibo, sulla vita, in cui il passato di un corpo infantile perduto e ricercato sino alla morte  ingoia il domani e tinge il presente dei muti fantasmi di un Eden d’inconsistenza e di leggerezza.  Un tempo in cui il peso del corpo, le forme del mondo, la loro materialità ancora non esisteva  e tutto era ancora nulla, era il possibile Tutto.
           Ma al di là dal sogno partenogenetico e onnipotente che l’universo anoressico esprime,  al di là dalla maniacale difesa di quell’illusorio «faccio da me» e «non ho bisogno di nessuno»,  che rende inutile la presenza dell’Altro e rende difficile l’aiuto, al di là dalla desertificazione dei territori dell’anima oramai disabitati, che quei corpi-guscio raccontano e di cui sono gli avamposti, vi è come  un monito che interroga, attraverso di loro, i valori del nostro tempo, le sue angosce e le sue ordinarie follie.  Bisogna essere leggeri, recitano i guardiani della «società igienica». La leggerezza è alla moda. Tutto deve essere senza peso per avere valore, per garantire la salute e la felicità.
           L’esistenza anoressica sembra portare alle estreme e più radicali conseguenze questo programma di vita. L’uomo cacciato dal Paradiso è caduto nel tempo. La leggerezza è da sempre il sogno di quel luogo perduto. La leggerezza è il nostro «paradiso» terreno, in cui esiste lo zuccherato senza il dentista, il piacere del cibo senza i chili di troppo, il piacere senza conseguenze. La leggerezza ha infatti il suo contrappeso, come nei disegni di Folon che traducono nello stesso tempo la serenità e l’angoscia della solitudine del volo. Infatti se la leggerezza incarna l’illusione della guarigione definitiva dal tempo e dalle pesantezze delle cose del mondo contiene allo stesso modo il rischio di trasformare quel sogno in un nostro incubo quotidiano.
           È qui che l’esistenza anoressico-bulimica, quella del troppo pieno e del troppo vuoto, incontra e interroga l’uomo del nostro tempo e il suo progetto di «società igienica» che dovrebbe garantire, come nei fantasmi più segreti ed estremi di quelle giovani donne, l’eternità, appena un attimo, un grammo prima della non esistenza.

Graziano Martignoni

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