Rivista per le Medical Humanities

Si tratta di uno «spazio espositivo» che arricchisce mediante illustrazioni ogni numero della rivista. Troverete pubblicati in questa sezione solo una fotografia di ciascun autore e il commento alle immagini proposte all'interno del numero. La pubblicazione integrale del portfolio la riserviamo, infatti, ai lettori e agli abbonati della versione cartacea della nostra rivista.

nota di Matteo Terzaghi

Fotografia di Paolo Rosselli



          Mettiamo che un liceale di 18 anni si ritrovi a Como davanti alla Casa del Fascio («Se vai a Como devi assolutamente andare a vedere la Casa del Fascio, è un capolavoro…») dopo aver letto le Lettere di condannati a morte della Resistenza italiana (la raccolta Einaudi). Non sa niente di Giuseppe Terragni né della storia dell’architettura, ma quell’edificio gli crea un problema politico, etico ed estetico, insomma un problema di coscienza. A 18 anni si può essere molto radicali (io lo ero), senza mezzi termini (così mi rimproverava mia madre), e certe contraddizioni del mondo esterno, vissute come affronti personali, possono risultare intollerabili. Dopo essermi arrabbiato e commosso sulle lettere dei condannati a morte, la mia disponibilità a riconoscere i meriti del fascismo e dei suoi seguaci era pari a zero, eppure quell’edificio esprimeva qualcosa di luminoso che mi teneva incantato, sembrava la casa stessa dell’intelligenza, e invece era la Casa del Fascio.
          Se rievoco qui un’esperienza personale di vent’anni fa, è perché essa è davvero all’origine, per me, delle riflessioni a cui vorrei dedicare questo scritto, il quale non riguarderà tanto l’architettura o la biografia intellettuale di Terragni, bensì il disagio che si prova di fronte a certi conflitti d’interesse. San Pietroburgo è una città bellissima, ma quando vieni a sapere che è costruita sulle ossa di persone che furono costrette a lavorare come schiavi alla sua edificazione, non sei più tanto sicuro di avere il diritto di goderla, quella bellezza, quei colori, quelle prospettive, come se etica ed estetica cominciassero a litigare dentro di te. L’estetica, diceva un poeta di San Pietroburgo, Iosif Brodskij, è la madre dell’etica, ma, si potrebbe aggiungere, a volte litigano: la madre alza la voce e la figlia se ne va sbattendo la porta.
          In modo più sfumato e forse anche più confuso, quel disagio lo provo ancora quando mi trovo di fronte a una della tante mirabilia dell’architettura contemporanea, mirabilia volute, commissionate, pagate e occupate da banche e multinazionali conosciute per i loro traffici con paesi tenuti sotto ricatto dal debito pubblico. Non si può escludere che guardando agli ultimi cento anni in una prospettiva di millenni, qualcuno considererà fenomeni analoghi la violenza fascista e quella della «nostra» finanza internazionale, e rubricherà il tutto sotto la stessa etichetta, con un misto di freddezza e accettazione. Forse che di fronte alle piramidi egizie ci poniamo ancora dei problemi morali? È passato così tanto tempo dalla loro costruzione, era un’altra epoca, un contesto completamente diverso. Diderot notava che proviamo compassione per un cavallo che soffre, ma non ci facciamo scrupoli a schiacciare una formica. Allontanandosi nella storia, è come se le vittime delle più atroci ingiustizie si rimpicciolissero fino a perdere ogni tratto individuale e ad assumere le dimensioni etiche di una formica. Le atrocità degli antichi ci appaiono come necessarie alla loro epoca, non vediamo persone ma gruppi, popolazioni, e li guardiamo dall’alto, con distacco, come un formicaio. I valori estetici intrinseci a una data opera – un rapporto geometrico, ad esempio – persistono invece fino alla distruzione di quest’ultima, e non subiscono quell’allontanamento e rimpicciolimento temporale a cui è condannato il contesto storico della sua produzione.
          Tornando alla Casa del Fascio, c’è chi ha tentato di risolvere l’imbarazzo etico-estetico che essa rappresenta proprio in questi termini: quando l’ideologia cede, resta la forma, ed è l’unica cosa che conta. Tuttavia quella di Terragni è un’architettura totale, non solo perché egli disegnò personalmente i mobili e ogni dettaglio della Casa del Fascio (zoccolini, porte, maniglie, lampade, tavoli, scaffalature ecc.), ma anche perché inscrisse quest’ultima in una concezione ideologica ben precisa, in cui progresso tecnico (in primis il cemento armato e le nuove possibilità di lavorazione del vetro), architettura razionale e fascismo si integravano a vicenda. Si potrebbe disquisire su quale fascismo e quale razionalismo, ma il punto è un altro. Come tanti intellettuali nell’Europa di quegli anni, anche Terragni s’illuse che si potesse costruire una società nuova, un uomo nuovo, e che fosse solo una questione di impegno, abilità pratiche e mentali, forza, coraggio, volontà, ordine, allineamento su obiettivi comuni, fede nello Stato. Come altri, anche lui ritenne forse che, in nome di simili ideali, si potesse sorvolare sulle contraddizioni del proprio tempo, percepito probabilmente come una fase di lotta e transizione verso un futuro radioso e un’umanità rigenerata in tutti i suoi aspetti. Oggi sappiamo che la promessa di un mondo migliore domani non può giustificare nessuna forma di violenza esercitata nel presente contro persone innocenti. È una delle grandi lezioni del Novecento, una lezione costata cara. Lo stesso Terragni sembra averne pagato il prezzo quando, provato da diciassette mesi di guerra sul fronte russo, subì un crollo nervoso, venne rimpatriato e sottoposto a cure neurologiche tra cui l’elettroshock e morì, svuotato e irriconoscibile, a 39 anni, il 17 luglio del 1943, una settimana prima della caduta di Mussolini.
          La prima volta che vidi la Casa del Fascio – dall’esterno perché non era accessibile –, la vidi come un parallelepipedo a base quadrata definito da una struttura regolare di travi e pilastri, una griglia risolta su ogni lato in modo diverso. Oltre al ritmo e all’armonia dell’insieme, mi affascinavano i vuoti, le rientranze e le trasparenze che sottraevano peso all’edificio e azzeravano lo spessore delle facciate. Solo recentemente qualcuno mi ha suggerito un’altra interpretazione. Invece di considerare le facciate come quattro rettangoli equivalenti (i movimenti di un’opera musicale), si può imperniare la lettura dell’edificio su una torre nascosta nel suo stesso volume ma ben disegnata dalla parte cieca del fronte principale. Se si considera che la sala delle adunate, illuminata da luce zenitale, è una specie di corte interna, ecco emergere la tipologia del municipio medievale, il palazzo del podestà. Il termine «podestà» era stato reintrodotto dal fascismo e la tipologia del municipio medievale era proprio quella scelta dal Partito nazionale fascista per i propri quartieri generali nelle città italiane. La liceità di questa lettura è confermata dai disegni preparatori di Terragni, come spiega Diane Ghirardo in un saggio pubblicato nel volume Electa dedicato all’opera completa dell’architetto nel 1996. Quanto alla trasparenza dell’edificio, l’impiego di cristalli, vetro e vetrocemento, l’attenzione per la luce e i suoi riflessi, tutto ciò potrebbe essere ricondotto, oltre ovviamente all’avanguardia architettonica di quegli anni, allo slogan di Mussolini che paragonava il fascismo a una casa di vetro in cui tutti possono, e devono!, guardare dentro. La metafora è ripresa esplicitamente da Terragni nel n. 35/36 della rivista «Quadrante», numero interamente dedicato alla Casa del Fascio. Nel volume Electa citato sopra, Kurt W. Foster richiama poi la nostra attenzione su un pilastro non intonacato ma rivestito di lastre di cristallo che attraversa come un ossario, una sacra reliquia, l’ufficio destinato al massimo rappresentante locale del partito. Tale pilastro, scrisse Terragni sullo stesso numero di «Quadrante», «vuole rappresentare anche nella materia grezza la spontaneità dello squadrismo». Il discorso andrebbe approfondito, ma già questi pochi cenni mostrano i limiti di un approccio puramente formale alla sua architettura.
          Per me la Casa del Fascio rimane un oggetto ambiguo, problematico, tanto affascinante quanto inquietante, luminoso nella sua complessa ma limpida articolazione architettonica, oscuro e scostante nelle sue allusioni ideologiche. Essa viene così a far parte di quella famiglia di oggetti ambigui il cui più celebre rappresentante è forse l’anatra-coniglio che appare anche nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein. Posso vedere la figura come anatra o come coniglio, ma non posso vederla contemporaneamente come anatra e come coniglio. La Casa del Fascio è un monolito bucato, scavato, ridotto a un affascinante gioco di linee e di riflessi, oppure è il palazzotto turrito del podestà, una torre di controllo da cui dirigere la vita di una comunità irreggimentata in un sistema fortemente gerarchico. C’è da chiedersi se tale ambiguità percettiva non abbia un correlato sul piano dell’etica.
          Vorrei quindi tornare, per concludere, all’affermazione di Brodskij citata all’inizio: l’estetica è la madre dell’etica. La si legge nel suo discorso per il premio Nobel. Brodskij sostiene che nei bambini le categorie di «buono» e «cattivo» precedono le categorie di «bene» e di «male» e che, essendo l’esperienza estetica qualcosa di strettamente individuale, «può già di per sé costituire, se non una garanzia, almeno un mezzo di difesa contro l’asservimento». «Il punto non è tanto – continua Brodskij – che la virtù non costituisce una garanzia per la creazione di un capolavoro: è che il male, e specialmente il male politico, è sempre un cattivo stilista. Quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero – anche se non necessariamente più felice – sarà lui stesso».
          C’è una poesia di Zbigniew Herbert che illustra bene questa teoria. Bisogna sapere che Herbert, tra i maggiori poeti del Novecento, fu un riferimento intellettuale e morale della resistenza anticomunista in Polonia. La poesia si intitola Potenza del gusto ed è dedicata a una professoressa di filosofia che negli anni Sessanta fu allontanata dall’università a causa delle sue critiche al marxismo. Mi limiterò a citare alcuni versi nella traduzione di Pietro Marchesani.  

          Non c’è voluto certo un grande carattere
          per il nostro rifiuto dissenso e opposizione
          abbiamo avuto un pizzico del necessario coraggio
          ma in fin dei conti è stata una questione di gusto
          (…)
          Davvero la loro retorica era fin troppo grezza
          (Marco Tullio si rivoltava nella tomba)
          catene di tautologie un paio di concetti come martelli
          una dialettica di carnefici nessuna finezza nell’argomentare
          una sintassi priva della grazia del congiuntivo
          (…)
          Prima di aderire bisogna esaminare attentamente
          la forma dell’architettura il ritmo di tamburi e pifferi
          i colori ufficiali il rituale meschino delle esequie  

          I nostri occhi e orecchi si sono rifiutati d’obbedire
          i prìncipi dei nostri sensi hanno scelto un altero esilio
          (…)  

          Come si legge in un’intervista del 1981 citata da Marchesani nella sua postfazione a Rapporto dalla città assediata (il volume Adelphi da cui trascrivo la poesia), Herbert considerava il totalitarismo sovietico una variante del fascismo. La vita e l’opera di Herbert depongono a favore della teoria di Brodskij secondo cui il male politico sarebbe sempre un cattivo stilista. La Casa del Fascio, invece, sembra contraddirla. In onore di Terragni ma senza dimenticare i condannati a morte della Resistenza italiana, propongo di riformulare il teorema in questi termini: Il male politico è sempre un cattivo stilista, con pochissime eccezioni.

Matteo Terzaghi

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