Non è un racconto, dove la trama si dipani di passaggio in passaggio. Ogni immagine è unica, emblematica dell’intero cammino. Il Tutto è presente in ciascuno dei frammenti, come canto fermo dell’anima che torna e fa di queste fotografie di Pino Musi un unico percorso, inquieto, intrigante, sospeso fra la tenebra e la luce, proprio così metafora del sacro inteso come esperienza della soglia che schiude all’ultimo orizzonte e da esso è data. Isole di luce, ferita inflitta alla dominante oscurità delle immagini, o isole di tenebra, dove la luce è origine, porta, soglia misteriosa, attesa verso l’oltre o accoglienza dell’oltre? È questa probabilmente la domanda di fondo che nasce dall’incontro con le immagini dell’Artista, cercatore di luce nei fitti spazi di tenebra ovunque presenti. Non conta qui l’origine geografica o lo spessore dei contesti da cui la figura è stata «rapita»: mondi sotterranei, tracce archeologiche, fabbriche dell’uomo...
Varia e complessa è la fenomenologia del gioco della luce e della tenebra, tracciato dalle immagini: c’è la luce che bacia e riscatta la pesantezza della pietra, la luce che si offre attraverso la lacerazione delle masse o penetra in esse per fessure invisibili, e la luce che riscatta dall’oscurità del silenzio i luoghi che la memoria ritrova densi di senso, di attesa. C’è la luce che lascia le pietre sul fondo, quasi sorvolando sulla loro pesantezza antica, stanca, abbandonata alla terra. Compaiono intermittenze di luce, s’affacciano intervalli di tenebra. La luce viene a rendere magmatica la terra dura, pesante, come nell’antro-ingresso di una fabbrica, opera della storia risolta in momento della natura. E la luce tocca l’acqua del suolo, e fa dell’umidità riflesso, bagliore nell’oscurità del percorso.
Ci sono lucernari specchiati nell’acqua, quasi a creare un labirinto di movenze e di pietre, dove a orientarti è e resta il duplice luminosissimo spazio d’un quadrato e d’un cerchio. È l’altissima luce, luminosità allo stato puro del suo apparire, che piove dall’alto e sembra plasmare la materia sorda, rendendola viva. È luce che schiude passaggi, penetra nell’ombra e ne fa percorrenze possibili. È pavimento di luce, intervallato da ombre, che traccia un itinerario che invita. E ci sono alcune decise definizioni dell’ombra, un trionfo del nero, il duro, non pittorico, eppure così inquietante non colore, assunto a colore della sospensione, dell’inizio, assetato di luce, riscattato da essa.
Ritorna costante il tema della porta, dell’arco, che evoca la soglia, il passaggio possibile, la via stretta che porta alla luce o è schiusa dalla luce, metafora di vita. A volte è duplice il possibile passaggio: verso fuori? verso dentro? Sia pur diversa, asimmetrica, la luce viene o attrae da ambo i lati.
Ambigua è la notte, temibile come la morte: l’oscurità ritornante non può non evocare quelli che il Salmo chiama «i terrori della notte» (Sal 91,5). Eppure, indispensabile alla vita, parte di essa è la notte... Una parte di questa tenebra è componente irrinunciabile del nostro essere: guai a voler portare tutto alla luce, guai a voler esaurire il pozzo inesauribile del cuore!
estratti da
Agonie notturne, rapite dalla luce Bruno Forte