Rivista per le Medical Humanities

Mulholland Drive
Regia David Lynch, Francia/USA 2001

Mulholland Drive è un buon banco di prova per il medical humanist. Come superare lo sconcerto di fronte all’inverosimile? Che cosa c’è da comprendere? Che cosa semplicemente da spiegare? Della malattia Lynch si è occupato a più riprese. Citiamo soltanto The Elephant Man (1980), una neurofibromatosi che deforma il cranio e soffoca mortalmente i polmoni, e Una storia vera (1999), il cui 73enne protagonista Alvin Straight (1920-1996), soffre di enfisema, coxartrosi e probabilmente diabete. Ma Lynch è regista anche di un’altra malattia, quella del cinema, e scruta i disturbi e sintomi della narrazione convenzionale, consolatoria, unilineare, mentre congettura nuovi modi di curare il nostro sguardo. Questa è appunto la sfida di Mulholland Drive. Mulholland Drive è il nome di una strada, da cui si ha una splendida vista sia su Los Angeles che su Hollywood. Ed è una strada che porta all’oceano. Dunque siamo tra la realtà (la metropoli), il sogno (il mondo della fiction, del cinema, degli studios) e il grande mare dell’essere, in cui le distinzioni si perdono. Lì accadono le cose che contano. Lì, nel crepuscolo della coscienza, dove la consapevolezza non è più piena e il sonno è popolato di percezioni e incontri inattesi, si rivela una dimensione dell’esistenza normalmente negletta.
L’esercizio mentale, che Lynch propone, punta ad un training simile a quello psicoanalitico. Attenzione (egualmente) fluttuante (gleichschwebende Aufmerksamkeit) è l’ascolto che il terapeutaconcede alle parole del paziente senza privilegiarne alcun elemento discorsivo, ma accompagnandolo con la propria attività inconscia, il più possibile libera e corrispondente a quanto viene richiesto al paziente, ossia l’associazione libera. Il paziente deve associare liberamente, l’analista deve ascoltarlo con attenzione egualmente fluttuante. Motivazioni ordinarie, propensioni pratiche, finalità operative: tutto va sospeso e fluidificato, affinchè, abbandonando l’attenzione critica, la mente dell’analista si lasci attraversare e fecondare dalla mente dell’alleato. Solo dopo, con una riflessione critica su questo impatto e sul campo energetico così creatosi, potranno risultare chiari i fatti, le parole e le relazioni che sembravano casuali. Mai farsi sedurre da ciò che l’analizzando esibisce come essenziale: in genere si tratta di una maschera, che distoglie da particolari e dettagli carichi di verità. Nel caso del cinema (Mulholland Drive è un tipico film sul cinema) le parole sono accompagnate da visioni. Se lo spettatore le prende troppo sul serio, se concentra l’attenzione solo su ciò che può essere spiegato (nel senso di erklären), non capirà nulla. Se si lascia invece trasportare dalle onde emotive e dalle suggestioni delle immagini, che si riverberano in lui, allora avrà materiali interpretativi, non tanto per riscrivere oggettivamente una storia, ma per intendere il vissuto morale e il travaglio affettivo dei personaggi, i quali a loro volta sono inseparabili dalle figure che abitano la mente di chi fruisce del racconto e contemporaneamente di chi l’ha scritto. Questo è del resto comprendere (verstehen): risalire dalla separazione soggetto/oggetto fino al vissuto sorgivo, in cui qualcosa ci accade, senza sapere se ciò origina dentro o fuori di noi.
Il film contiene – ad una prima lettura – due film, il cui inizio e la cui fine sono sfumati. Gli attori sono gli stessi, ma cambiano alcuni nomi di personaggi oppure le loro posizioni e fortune, tanto che si è tirata in ballo persino la metempsicosi e la reincarnazione, per spiegare le metamorfosi della trama. Alcuni critici hanno parlato (anche per le effettive vicende di produzione della pellicola) dell’accostamento tra la prima e l’ultima puntata di un serial, di cui manca premeditatamente tutto lo sviluppo centrale, che lo spettatore deve immaginare.
Qualcun altro (è l’ipotesi prevalente) ha letto la prima parte come un sogno (o come un’allucinazione in forma di sogno), che ha per tema – diremmo noi – le vicissitudini del desiderio, mentre la seconda parte sarebbe la vicenda reale di una sconfitta (la Watts non riesce a farsi strada a Hollywood ed anzi è tradita e sbeffeggiata dall’entourage, al punto da isolarsi, sprofondare vicenda che offre i materiali diurni (il linguaggio è ancora freudiano) per il confezionamento del sogno. Tutta la prima parte (dal lenzuolo della prima sequenza alla stanza da letto della trentaduesima) sarebbe da collocare pertanto, sul piano temporale, successivamente alla seconda. Infine, dopo essersi sparata in bocca, la ragazza avrebbe ancora qualche immagine, come quella di una donna con una vistosa parrucca blu, che dal palco sussurra «Silencio», l’ultima parola del film.
Perché abbiamo parlato di vicissitudini del desiderio? Perché il desiderio incanta e delude. È un bel sogno sfondare ma ombre cupe si frappongono. Cupe come una strega o un barbone mostruoso, come la mafia, come un incidente automobilistico, come il cadavere putrefatto di un’amica. Un’imprevista attrazione lesbica eccita la ragazza, ma la sua compagna soffre di amnesia e il denaro nella sua borsetta puzza di crimine. Il desiderio sbatte contro ostacoli dolorosi e impegna ad un’esplorazione rischiosa. Il mondo onirico è popolato di mostri e il sogno è costantemente minacciato da qualche cow boy che intima: «è ora di svegliarsi». Come si sa, la cosa peggiore per chi sogna, lo schiaffo più crudele ai suoi desideri è quello di venire interrotto nella sua inconsapevole attività narrativa. Il sognatore desidera anzitutto questo: continuare a sognare.
Avviene però anche il contrario: il primo film (il sogno) dà materiali e timbri al secondo (la realtà), che ha molti tratti fantastici: micronani che passano sotto le porte, enigmatiche luci azzurre, allucinazioni spaventose, pensieri masturbatori. E se la seconda parte fosse anch’essa un sogno? Il sogno cioè di un disastro, la trama di un lutto, l’esplosione di fantasie amorose (Diane e Camilla sorridenti, entrambe con parrucche bionde, come nella quarantaduesima sequenza), o di ossessioni vendicative (il contratto con il killer)? Una narrazione trapassa, sfuma, aderisce all’altra, come i due lati di una benda, e noi spettatori siamo costretti ad un’accettazione indecisa, mobile, dubitativa. Vengono in mente i nastri di Moebius e le architetture di M. C. Escher, in cui figure e sfondi si scambiano le parti e oggetti incongruenti si incastrano tra loro senza lasciare lacune.
Come lo psicoanalista, per il quale non conta se il paziente riferisce storie reali o fittizie, cronache o sogni, così anche lo spettatore viene invitato a spostare il focus del proprio interesse.Conta il cammino dentro un’anima. Conta il repertorio vitale che viene acceso. Conta l’atmosfera complessiva, indimenticabilmente inquietante come quella diTwin Peaks, un’atmosfera in cui la pulizia formale viene forata da buchi di non sensoAlla fine del film noi sappiamo tutto della protagonista, anche se non sappiamo che cosa sia veramente accaduto. Comprendiamo, senza riuscire a raccontare in forme unidirezionali, più esattamente registriamo lo sfaldarsi del racconto, il suo mutar di genere,il suo alludere a una fodera interna. Come nei quadri fiamminghi, possiamo descrivere certi dettagli (inquadrature, fotogrammi, sequenze) con cura scrupolosa, ma ci manca la solidità di una visione d’insieme, cosicchè il centro della visione è consegnato alla periferia percettiva. E ciò che è adombrato risulta più significativo di ciò che è pienamente illuminato.
Chi è la ragazza, che vuol fare carriera a Hollywood, e che la Watts interpreta? È Betty, ma è anche Diane. In lei c’è qualcosa di Camilla e anche di Camilla Rhodes (la giovane protagonista imposta da mafiosi). Conosciamo i simboli decisivi, su cui si fonda l’identità di una persona, quei simboli grazie a cui la porta dell’inconscio si apre e il sogno scivola nel pieno giorno, mentre la vita reale irrompe nei pensieri notturni […]. (Utile la lettura del libro di Luca Malavasi, David Lynch. Mulholland Drive, Torino, Lindau, 2008; il testo integrale della recensione è stato proposto alla rivista bio-etho V. Rivista di bioetica, morale della persona e medical humanities, Palermo, direttore Salvino Leone)  

Paolo Cattorini
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