Rivista per le Medical Humanities

La vita segreta delle parole
Regia Isabel Coixet, Spagna, 2005

«Il cibo, il piacere di cucinare e di mangiare bene (quando si ha questa fortuna) è uno dei temi principali del film. Un altro è lo scherzo – fare una battuta – perché in quel momento non è possibile fare nient’altro. Queste due cose ci ricordano che, nonostante tutto, la vita può essere considerata un dono». Con queste parole Isabel Coixet, giovane regista catalana prodotta da Pedro Almodovar, commenta il suo secondo lungometraggio. La vita come dono o semplicemente una visione di come la sofferenza conduca a una salvezza comune, sembrerebbero essere gli elementi centrali del film. Ma siamo proprio sicuri che la sofferenza porti a una qualsiasi forma di salvezza comune o individuale? Posto in questi termini e a una prima lettura del film sembrerebbe così: un’esaltazione, anche se calcolata stilisticamente nei minimi dettagli, della sofferenza, del dolore. Ma La vita segreta delle parole, per fortuna, ha più livelli narrativi.
Due personaggi (Hannah e Josef), due dolori con matrice diversa, due menomazioni fisiche (sordità e cecità non permanente), un solo punto di incontro e di rinascita. Il punto d’incontro fisico è una piattaforma petrolifera, abitata da strani vagabondi mentali; quello immaginario è l’intimità, la relazione, la con-partecipazione della sofferenza tra i due personaggi. Una narrazione, un mondo separato dalla realtà della piattaforma sia a livello narrativo che a livello estetico. La storia dei due personaggi è descritta esteticamente attraverso la ricerca filmica dell’intimità: un’unica scena, i primi piani alternati sui volti dei personaggi, su alcune parti del loro corpo (occhi, mani) e i dialoghi, le parole segrete quasi sussurrate. Le vicende dei personaggi «minori» (il cuoco, l’oceanografo, il capitano, l’oca e due altri lavoratori) sono invece narrate attraverso uno stile visivo diametralmente opposto: scene al «rallenti», nessun dialogo, nessuna parola sussurrata ma musica, canzoni. Un solo microcosmo di «sofferenti» ma pieno di molti dolori differenti.
Il punto debole del film della Coixet è il ritmo narrativo. Un andamento quieto, una dilatazione dei dialoghi e dei silenzi efficaci solo fino a metà film. Poi la «rivelazione» della sofferenza di Hannah e la sua «guarigione» prendono un ritmo troppo brusco, repentino che rischia quasi di banalizzare tutto il percorso emotivo dei protagonisti. Se da una parte il tempo narrativo accelera, dall’altra il ritmo del film invece paradossalmente riceve un colpo fatale. Arriveremmo quasi a dire che l’ultima mezza ora, a parte il monologo della psicologa, è inutile, scontato, quasi banale. E soprattutto il mezzo happy end finale non ci sta proprio. Il cinema è soprattutto fatto di non detti e di non visti, la troppa esplicitazione permette, è vero, una migliore comprensione però toglie quasi sempre il fascino della narrazione cinematografica e in questo caso quello delle parole «segrete».
Il punto forte del film è sicuramente la denuncia politica sulla guerra dei Balcani e soprattutto sul peso di sofferenza, vergogna, dolore e sensi di colpa che ogni guerra, ogni violenza provoca. Il monologo della psicologa di Hannah è un monito a non dimenticare l’orrore. Un film più sulla vergogna che sulla sofferenza. E per noi, non è mai la sofferenza che permette la salvezza comune, ma piuttosto la presa di coscienza, la volontà di ricordare i drammi umani individuali e collettivi per permettere a donne e uomini di superare la vergogna e ricominciare a vivere e non più solo a sopravvivere.

Martina Malacrida  
top