Rivista per le Medical Humanities

Retrouver la vie. Histoire, pouvoirs et limites de la réanimation

Maurice Rapin
Laffont
Parigi, 1980  


Non sempre, nella scelta delle mie letture, mi impongo di prestare fede al monito dello sbrindellato uomo-libro che in Fahrenheit 451 incarna Il Principe di Machiavelli: «Mai giudicare un libro dalla copertina». Se non mi fosse stato segnalato da un amico, in libreria Retrouver la vie. Histoire, pouvoirs et limites de la réanimation di Maurice Rapin non avrebbe certo attirato la mia attenzione, né quella estetica, né quella scientifica. Probabilmente dettata da esigenze editoriali, la formula «ritrovare la vita» risulta piuttosto infelice, poiché ricorda le sensazionalistiche testimonianze di pazienti miracolosamente risvegliati dal coma, con l’immancabile immagine della luce in fondo al tunnel. Complici i colori pastello e l’evocativo sfumato della copertina. Solo il sottotitolo riesce a fugare ogni sospetto e a stuzzicare la mia curiosità.
Il deterrente della brutta copertina giustificherebbe da solo la recensione di quello che si è rivelato un libro bello. Ma una curiosa coincidenza consolida la pertinenza di un commento intempestivo. La data con cui Rapin apre il suo libro e l’anno di pubblicazione formano un’invitante simmetria con l’anno in corso: 1952-1980-2008. Rapin sceglie il 1952 per ricostruire un immaginario turno di guardia di un giovane e impotente interno, sfondo desolante su cui si stagliano fieri i capitoli successivi. Pioniere della rianimazione, Rapin racconta con inaspettata maestria la nascita, il potere e i limiti di questa disciplina, dalla drammatica epidemia di poliomielite che colpì la Danimarca nel 1953 alle pittoresche improvvisazioni nel campo della respirazione artificiale fino ai dettagli meno spettacolari della prevenzione dell’insufficienza nutrizionale. L’obiettività del testo è garantita non tanto da un breve capitolo redatto da un giornalista, che offre un indulgente rapporto di una visita in reparto, ma dalla lucidità dello stesso Rapin, capace di cogliere anche le ombre della propria disciplina: la sua inestirpabile balbuzie, le sue vittorie di Pirro, le sue contraddizioni. Dalla zona grigia delle antinomie della rianimazione l’autore prende spunto per delle riflessioni di carattere etico, che toccano temi ancora attuali e problematici come l’accanimento terapeutico, la dignità e la qualità di vita del paziente, la formazione medica. Senza disconoscere il ruolo dei famigliari, Rapin circoscrive nitidamente ma ratifica con convinzione il ruolo e le responsabilità del medico nelle scelte più scottanti e decisive. Le posizioni di Rapin possono essere discutibili e discusse, ma non risultano mai datate, perché scaturiscono da considerazioni generali sul potere comunicativo e «governativo» della medicina come arte e come scienza.
Il linguaggio è penetrante e colorito, senza però stridere con l’accurata terminologia medica, che non mette mai in imbarazzo anche il lettore più impreparato. Il tono non è mai celebrativo. Il testo scricchiola solo nei passaggi in cui l’autore si lascia trasportare dalle sue inclinazioni e dai suoi gusti estetici. Le lunghe incursioni nella pittura moderna e contemporanea sono più funzionali all’autocompiacimento culturale dell’autore che alla chiarezza dei concetti che dovrebbero illustrare. Una vanità più ingenua che irritante. Un vezzo più umano che scientifico, facilmente perdonabile.

Chantal Marazia  
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