Rivista per le Medical Humanities

Fertili pensieri femminili

Partorire con il corpo
e con la mente. Creatività,
filosofia,
maternità  

Francesca Rigotti
Bollati Boringhieri
Torino, 2010  

          La recente pubblicazione di Francesca Rigotti ritorna sul tema del pensiero femminile, ovvero di donne che pensano e che intendono superare quel che l’autrice chiama il paradosso di Arianna. Come la mitica e intelligente liberatrice di Teseo non fu valorizzata per la sua geniale mossa con il famoso filo nel labirinto, bensì tradita e – in una versione del mito – persino uccisa, anche le donne sono state, nei secoli, espropriate delle attività loro proprie quali il partorire il tessere, il filare. Queste operazioni, considerate banali e insignificanti finché praticate da donne, hanno assunto ben altra valenza allorché trasfigurate in un processo di purificazione metaforica e di astrazione da parte degli uomini. E quindi il parto della mente o il filo del logos hanno preso stanza in luoghi considerati ben più degni delle domestiche dimore.
          Se in altri testi la Rigotti ha cercato di recuperare la dignità concreta e metaforica, tutta femminile, di queste attività (Filosofia in cucina, 1999; Il filo del pensiero, 2002; La filosofia delle piccole cose, 2004) con uno stile linguistico capace di mettere in gioco paragoni e analogie, in quest’opera difende il contributo femminile alla riproduzione, spesso e a lungo oscurato. La gravidanza spirituale e la generazione delle idee da Platone in poi hanno allontanato lo sguardo dalla matrice femminile che fa nascere, che dà vita. È stato oscurato quell’archè che invece i presocratici avevano inteso nella sua fisicità, ci si è progressivamente dimenticati della cosa da cui si avvia l’astrazione, privilegiando quest’ultima a discapito della prima.
          Nel promuovere questa prospettiva vengono fatte parlare voci amiche, soprattutto femminili. Ma non manca anche quella di qualche autore illuminato come ad esempio il poeta R.M. Rilke. Due filosofe, tra le altre citate, ci sembrano particolarmente vicine alla nostra autrice: Janet McCracken, che intende dimostrare come la coscienza morale e il giudizio estetico nascano nel mondo domestico (è infatti fondamentale per la formazione del carattere morale di ciascuno il modo in cui si soddisfano i bisogni di sopravvivenza, come si mangia, come ci si veste e si arreda la casa) ed Elisabeth M. Anscomb (1912- 2001), una della figure di maggior spicco della filosofia anglosassone del XX secolo. A questa studiosa, madre di ben sette figli e altrettanto feconda pensatrice, si deve tra l’altro una riflessione importante sul concetto di azione intenzionale. La presenza dei figli e delle loro innumerevoli domande anche a sfondo filosofico (gli inquietanti perché? dei bambini) è stata sicuramente uno stimolo fondamentale per l’elaborazione filosofica di questa autrice che non ha posto un aut aut – come altre filosofe, tra cui persino la stessa Simone de Beauvoir – tra figli e libri. Invece un nuovo monito esce da queste pagine: et liberi et libri.
          Alle donne filosofe, allora, il compito di parlare della nascita e della dimensione creativa che dalla nascita ha origine, superando la dicotomia tra corpo gravido (femminile) e mente gravida (maschile). La donna, madre e filosofa Rigotti utilizza con abilità un pregevole attrezzo creativo, quello della metafora, e invita le donne e gli uomini a recuperare i termini che fanno capo alla esplicazione della creatività: nascita, parto, concepimento, fertilità, individuando in essi la matrice del corporeo femminile. In particolare alle donne porge l’invito a recuperare le parti vitali della propria corporeità, più predisposta a dare alla luce che a evidenziare le ombre e le selve oscure percorse da letterati e poeti. Inoltre è proprio delle donne indagare la scena della nascita, dove il nuovo appare ma sempre in relazione con un altro individuo che non va dimenticato. Come afferma Luce Irigaray, «L’umano originariamente è: non uno ma due, due che non sono né metà, né complementari, né opposti». Riconsiderare il momento del parto insieme alla nascita significa recuperare la parte del femminile (nella sua concretezza e fisicità) che è stata oscurata dalla tradizione filosofica occidentale, troppo allineata a cogliere la verità a partire dalla morte o dalla seconda nascita piuttosto che da quella della vita. Significa anche recuperare la caratteristica natale/nascibile e non solo mortale dell’umano.
          Il modello della maternità può invece offrire stimoli all’attività creativa mentale. Nel momento della nascita e del parto avviene il presentarsi di una creatura nuova, originale, autentica e aderente alle origini, a quell’elemento che come l’acqua per Talete ha fatto essere e continua a mantenere nell’essere.
          Inoltre – e qui rintracciamo il cuore del testo – proprio analizzando la metafora del parto e della creatività e associandola all’evento concreto da cui essa nasce è possibile rintracciare alcuni caratteri del pensiero creativo, di come nascono le idee. Tre aspetti, in particolare, risultano caratterizzanti sia i pensieri sia le creature originali: la polisemia, la tensione con l’oscillazione, la forma gianusiana del pensiero, termine tratto dal dio Giano, come riferisce Albert Rothenberg ideatore di tale espressione. Nel primo aspetto è originale l’idea capace di un’infinita varietà di effetti, ricchi di significato proprio, come un nuovo figlio aperto a infinite possibilità espressive e di vita. Inoltre, come nella piccola creatura appena nata riscontriamo somiglianze con i genitori, con intermittenze spontanee e non imposte, così il pensiero innovativo gioca con altre idee in un ritmo mobile e oscillante, irrispettoso di gerarchie e capace di congedarsi dal vecchio. Infine, come la divinità romana che sorvegliava le soglie e le cui due facce permettevano di osservare interno ed esterno dell’edificio, il pensiero creativo è gianusiano come l’atto creativo che comporta la diade madre- figlio insieme.
          In tal modo, il concepimento di un figlio e di un’idea non rischiano più diversi livelli valutativi e alla donna che pensa sono così debitamente restituiti dignità e valore.    


L’ordine simbolico

della madre

Luisa Muraro
Editori Riuniti
Roma, 2006  

          Il testo di Luisa Muraro non è recente. Apparso per la prima volta nel 1992, esce in una seconda edizione nel 2006, emendato da una serie di minuti errori e con una tardiva recensione della sua ex-autrice. È stato un libro molto importante per chi lo ha scritto: in queste pagine è presentato il passaggio avvenuto nella pensatrice dalla filosofia accademica (ha studiato alla scuola dell’Università Cattolica di Milano con Bontadini, Severino, Sofia Vanni Rovighi) a quella finalmente personale, capace di rintracciare un inizio, un fondamento del proprio pensiero e soprattutto una corrispondenza fra il linguaggio e le cose dette. Si può quindi leggere come un percorso autobiografico, intenso e persino commuovente a tratti, pur nella sua difficoltà concettuale che la stessa autrice riconosce nella nota finale. Nel titolo, la tesi dell’opera e la rivelazione di chi scrive: la svolta del pensiero è avvenuta con la scoperta della simbolica potenza materna, necessaria per l’esistenza libera di ogni donna. Una scoperta personale ma anche pubblica poiché avvenuta con la politica delle donne e grazie a questa proseguita nel tempo. Infatti questo testo, dibattuto all’interno di gruppi di donne e di – pochi – uomini, ha avviato altre pubblicazioni a più voci (tra le quali ricordiamo quella della Comunità di Diotima, L’ombra della madre, Liguori, Napoli, 2007, dove le autrici si sono firmate anche con il cognome della propria madre), dibattiti, incontri in vari ambiti e soprattutto nell’accogliente sede milanese della Libreria delle donne.
          L’amore per la madre da parte delle donne è gravemente rimosso nella nostra cultura. Dopo la stagione infantile, di grande attaccamento alla figura materna, la donna perde di vista e spesso arriva a rinnegare colei che le ha dato la vita e la parola. Non basta criticare il patriarcato per superare questa vicenda: occorre imparare ad amare la madre, anche e nonostante l’ostilità che si possa nutrire nei suoi confronti. La vera grandezza del femminismo non consiste nel criticare il patriarcato ma nel ritrovare quella grandezza incontrata nei primi mesi e anni di vita e poi tristemente perduta e quasi rinnegata. Al di là della critica e insieme alla critica occorre far nascere il desiderio, così necessario per le donne e la loro identità passionale e mentale. Il senso dell’essere, dell’essere finito è così recuperato a livello metafisico. Anche a partire dalla miseria della propria madre è quindi possibile restituire il senso della sua presenza, così come la presenza della realtà fisica nella sua finitudine e contraddittorietà. Per salvare i fenomeni non si imboccherà allora la strada della metafisica classica e la sua tendenza – da Platone in poi – a raddoppiare gli oggetti e i valori svilendo l’esperienza concreta, molteplice e finita.
          Ritornare come bambini (e bambine!), pur nell’ampio credito che si può attribuire a questa espressione che hanno in comune il Vangelo, l’estetica pre-verbale, le indagini psicoanalitiche, non significa tuttavia valorizzare quella esperienza umana come l’unica e la più vera. Certo molto dobbiamo al momento in cui eravamo tutt’uno – corpo e mente – con la madre e a quando, da lattanti provavamo gli stessi desideri della madre al punto di creare il mondo secondo quel che la madre creava per noi e credere così che esso era posto da noi stessi. La diade originaria madre-figlio/a, infatti, non va dimenticata; tuttavia appare un momento in cui il bimbo/a passa dalla sua creazione del mondo, forgiando propri significati, a un mondo che (il bambino in qualche misura si accorge di questo) già a lui preesisteva. In questa fase la creazione originaria precedente non è negata né va creduta illusoria; una traccia di essa si conserva nel pensiero e nella parola della nuova creatura. La tesi gnoseologica della Muraro è pertanto la seguente: «l’esperienza creatrice delle origini è quella di un soggetto in relazione con la matrice della vita, soggetto distinguibile dalla matrice ma non dalla sua relazione con essa».
          Abbiamo dato volentieri la parola all’autrice che proprio al tema della parola lega la questione nodale dell’ordine simbolico. Infatti, la matrice della vita è anche la matrice della parola, ovvero dell’ordine simbolico che si stabilisce necessariamente con la relazione materna. Nel nostro linguaggio abita chi lo ha fatto sorgere così come il nostro corpo risente di un’impronta materna. La separazione dalla madre, con la nascita del nostro modo di leggere la realtà e di parlare non può dimenticare l’originaria autorità da cui la nostra parola dipende. Quell’arte dello scambio che è la lingua deriva da uno scambio originario, tra l’autorità primitiva a cui dobbiamo corpo e parola e la nostra autonomia. Quest’ultima risulta falsa e impersonale – e soprattutto dominata dalle autorità patriarcali – senza il riconoscimento, da parte del soggetto, di quella fonte e autorità iniziale. Ciò che rende veramente dicibile il reale, l’ordine logico del nostro pensiero si basa sull’accettazione di quella necessità, di quella relazione originaria.
          L’autrice ammette di formulare in tal modo una sua intuizione molto forte e importante, che tuttavia non è ancora espressa in una teoria compiuta. Prova nel contempo la sua proposta, rivelando innanzitutto la sua esperienza di donna filosofa, che ha visto come atto di nascita del suo pensiero proprio la scoperta di questo debito materno; riporta però anche altre esperienze di donne letterate, poetesse e mistiche che hanno diversamente affrontato questo tema e anche di coloro che non sono riuscite a staccarsi dalla madre e manifestano sintomi nevrotici, come nel caso del fenomeno isterico. Le isteriche – secondo la Muraro – vivono un attaccamento intero alla madre, non accettano di vederla sostituita; arrivano a odiarla, rivoltandosi contro di lei con anima e corpo. Restano nell’avversione, come unico tentativo di indipendenza simbolica. In queste donne non è infatti avvenuta quella sostituzione o mediazione che ha inizio col riconoscimento di quel tantissimo che la madre ha dato: la vita, la parola. La parola che la madre insegna diventa una parola propria solo nel momento in cui essa viene sostituita. Ma alla sostituzione vera si accompagna necessariamente il riconoscimento e la vera restituzione alla madre della sua autorità. Per varie ragioni storiche e culturali il pensiero maschile vive questa riconoscenza al materno senza sforzo; quello femminile invece ne è carente e per questo in tale direzione ha da dirigersi. A partire dall’ascolto delle voci femminili presenti e passate il pensiero delle donne può così crescere e maturare.

Antonella Cattorini Cattaneo
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