Accabadora
Michela Murgia
Einaudi
Torino, 2009
«– Siete venuta... – bisbigliò rauco e pallido.
(...)
– Come sono venuta posso anche andarmene. Dimmi che hai
cambiato idea e uscirò da qui senza girarmi. Giuro che non ne
parleremo mai più, come se non fosse mai successo.
Nicola rispose troppo in fretta, come non volesse lasciarsi il tempo
di dubitare.
– Non ho cambiato idea. Sono già morto, e voi lo sapete.
(...)
La vecchia intanto schiudeva lo scialle per rivelare le mani strette
attorno a un piccolo contenitore di coccio con la bocca larga.
Quando l’accabadora sollevò il coperchio, dal contenitore si levò
un filo di fumo. (...) L’uomo trattenne dentro ai polmoni quel fumo
tossico, chiudendo gli occhi stordito per l’ultima volta. Forse
dormiva già quando il cuscino gli venne premuto in viso, perché
non sobbalzò né si oppose. O forse non si sarebbe opposto
comunque, che non era cosa per lui morire diversamente da come
era vissuto, senza respiro» (pp. 89-90).
I professionisti della cura non esiteranno a classificare sotto la
voce «eutanasia» il gesto dell’accabadora, «colei che finisce, che
porta a compimento la vita» – dal sardo «accabare», che significa
porre termine, mettere fine –, sorta di parca che recideva il filo
dell’esistenza nella Sardegna tradizionale, ormai presente solo
nella letteratura. Eppure a questa interpretazione del gesto della
protagonista del proprio romanzo, l’autrice si sottrae:
«Anche se l’atto apparentemente sembra il medesimo, in realtà
si tratta (...) della stessa risposta a domande diverse – dichiara
Michela Murgia a Fahrenheit (Radio3, Rai, 22 giugno 2009) –.
L’accabadura, l’atto di finire in quel modo, così come è raccontato
nel libro, è in realtà frutto di una fortissima coesione sociale,
proprio di una relazionalità potente, dove nessuno si autodetermina:
non ti fai e non ti disfi. Quindi questa donna esercita una
risposta collettiva nei confronti del problema che noi oggi considereremmo
singolo, del tutto personale. Al contrario mi sembra
di poter dire che l’eutanasia sia un atto di grande solitudine,
o dove comunque chi ti chiede di sostenere la vita ad ogni costo
affida questo costo solo a te e non lo condivide».
E proprio nelle differenze che emergono dall’accostamento tra
la figura dell’accabadora e quella di «un’eutanasista ante litteram»,
si può forse cogliere una delle questioni tanto fondamentali
quanto assenti dal dibattito attuale sull’eutanasia e sul
testamento biologico: dietro alla rivendicazione del rispetto dell’autonomia
non si cela forse l’assenza di un sostegno comunitario?
Al di fuori di un’economia di comunità, di «un contesto
di fortissime relazioni, di corresponsabilità e anche di co-genitorialità»,
come quello in cui l’accabadura si dava, il rispetto dell’autodeterminazione
del soggetto rischia più facilmente di significare solitudine.
Il problema allora non sta tanto nel riconoscimento (o nella negazione)
del valore dell’autodeterminazione, bensì nel fatto che
quest’ultima non si inscriva più in un mondo di significati, valori
e responsabilità condivisi.
Guenda Bernegger