Modi di morire
Iona Heath
Bollati Boringhieri
Torino, 2008
Da tempo seguo con sospetto la cultura dell’eufemismo, che camuffa la videosorveglianza in videoprecauzione o traveste lo spazzino da operatore ecologico. Originariamente «parola di buon augurio», l’eufemismo si è prima convertito nel propiziatorio divieto di pronunciare parole di cattivo auspicio e poi nella preventiva osservanza di un (religioso) silenzio. Rispettandone l’etimologia, si può dunque scorgere nell’eufemismo una figura retorica piuttosto antipatica, persino irriguardosa, specie se rasenta la litote. Quando tradisce l’imbarazzo, «diversamente abile» può essere infatti più offensivo di disabile, «non vedente» (o il cacofonico «visuleso») più sgarbato di cieco, «portatore di handicap» più umiliante di handicappato. Ma la perifrasi non scongiura soltanto l’handicap e la malattia. Se è vero che il tabù più efficace e radicato nella nostra cultura è quello della morte, anche l’espressione «fine vita», può essere letta come un espediente esorcizzante, scaramantico; quasi che evocare la morte significhi automaticamente invocarla. Su questo eufemistico silenzio, Modi di morire di Iona Heath pone un accento ardito, quasi sacrilego, soprattutto in un paese superstizioso come l’Italia, che sa accanirsi ostinatamente sulla sacralità della vita, indipendentemente dalla sua qualità e dignità. Il titolo italiano non solo è più audace e immediato dell’originale Matters of Life and Death (Questioni di vita e di morte) – che con il gioco di parole allevia il carico espressivo della morte – ma anche più aderente al progetto dell’autrice, poiché fa leva sulla dimensione verbale della morte. Morire, appunto, è un verbo, non un fatto. Un verbo a cui la maggior parte dei medici, dei pazienti e dei loro familiari giungono impreparati, ovvero analfabeti. Così il testo della Heath si presenta come una grammatica del m orire, non solo per riconoscerne i modi, ma anche per coniugarne i tempi e per associare correttamente i suoi verbi ausiliari: guardare, parlare/ascoltare, toccare, pazientare, e non da ultimo vivere. «Il morire – scrive infatti l’autrice – va vissuto ». È però su questo piano che il testo rischia di farsi scivoloso. Nella celebrazione del processo, del vissuto della morte, il passo verso l’affermazione del valore positivo, fortificante del dolore può essere breve e malfermo, sopratutto se l’analgesia e la sedazione sono presentati come anestesia della coscienza – e dunque alla comprensione – della propria morte. Una morte medicalizzata, secondo la Heath, può essere infatti tronca quanto una morte violenta. Ma l’autrice non insiste tanto sul trattamento, quanto sulla cura della morte: cura intesa come insieme di rimedi per alleviare la sofferenza che spesso precede la morte, ma soprattutto cura come preoccupazione, affanno di chi sta per morire. E per ridurre la paura della morte, l’autrice non attinge esempi e argomentazioni unicamente dalla propria esperienza professionale, ma soprattutto dalle grandi voci della letteratura e della filosofia occidentale, da Auerbach a Zenone, passando per Samuel Beckett, Hans Georg Gadamer, John Berger (che firma una suggestiva postfazione sui luoghi del morire), Susan Sontag, Lev Tolstoj, Joseph Conrad. La presenza più pervasiva è forse quella di Walter Benjamin che, seppure menzionato, non è mai citato direttamente. Ma il tributo al filosofo tedesco va rintracciato nella compagine stessa del libro: come nel lavoro di Benjamin, la citazione irrompe nel testo della Heath come un «predone armato» che estorce il consenso al lettore ozioso.
Chantal Marazia