Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio
Luisa Muraro
Mondadori
Milano, 2009
È bella l’immagine scelta dalla Muraro come filo rosso – meglio: di vari colori – del suo libro. Si richiama alla rappresentazione contenuta nel poema di un grande mistico islamico persiano (Farid al-din’ Attar collocabile tra il XII e il XIII secolo dell’era cristiana) dove si narra di una povera vecchia, piccola di statura, che, al mercato degli schiavi, presenta insieme a moltissimi altri compratori la sua offerta per l’acquisto del bellissimo e prestante schiavo Giuseppe, l’ebreo di biblica memoria che riuscì a diventare viceré d’Egitto, nonostante l’ostilità dei suoi fratelli. Ebbene quella donna si mette in fila con altri ben più ricchi mercanti offrendo gomitoli di lana colorata, da lei stessa filati. Un pegno assai misero di fronte agli altrui tesori e denari. Eppure in risposta alla derisione del sensale ella difende la sua scelta così dicendo: «Mi son messa in fila perché dicano, amici e nemici: anche lei ci ha provato».
A lei guarda la scrittrice, filosofa e convinta sostenitrice del pensiero della differenza femminile, ovvero alla donna nella sua condizione di nana e di impari concorrente nel mercato mondiale gestito da un potere maschile. A lei che non si tira indietro e difende il suo prezioso filato, prodotto del lavoro delle sue mani, per ambire ad uno scambio che fortemente desidera. A lei che non abdica al suo desiderio, nonostante lo svantaggio storico. Come dice il sottotitolo il libro difende soprattutto il desiderio, condizione dell’essere e anima delle trasformazioni più autentiche. In questo senso il testo ha una forte componente politica, soprattutto se leggiamo in questo termine un significato che non ha a che fare con giochi di potere a cui siamo da secoli abituati. Proprio dalla riflessione sui nomi da dare alle cose parte la Muraro per difendere la sua prospettiva che supera il dualismo tra pensiero ed essere, a cui la modernità ci ha abituato. Il nome è vero nella misura in cui restituisce alla cosa l’esperienza che di essa abbiamo; esperienza anche corporea, emotiva e spesso carica di desiderio. Lo ribadisce più volte, supportata dai contributi delle amiche di Dio come le mistiche della spiritualità occidentale (tra cui Margherita Porete morta sul rogo verso la fine del XII secolo) e compagne di strada più recenti, quali pensatrici, scrittici e poetesse ma anche donne comuni e naturalmente uomini che partecipano all’avventura di chi crede nel valore delle parole, poiché queste sono «i simboli più raffinati che possediamo e la tessitura della nostra umanità ne dipende» (Iris Murdoch). La realtà, quella vera, non abita le costruzioni della civiltà umana spesso dominata dai potenti, ma ha a che fare con questo pregiato tessuto di simboli e i suoi artefici. Tra costoro le donne, purtroppo, hanno a lungo lavorato nel nascondimento e spesso la loro abilità è volata via, zittita da voci più altisonanti benché vuote e ripetitive. Eppure le voci femminili che si sono distinte negli ultimi due secoli (George Eliot,Virginia Woolf, Simone Weil, Cristina Campo tanto per citarne solo alcune) hanno saputo far uso di parole che hanno attinto alla loro esperienza vissuta quale la stessa fatica di emergere in un mondo che ben poco aveva loro concesso in termini di istruzione e di lavoro; hanno raccontato le loro biografie, si sono affidate alle fiabe e alle visioni di un mondo migliore benché apparentemente impossibile. A questi contributi e alla loro condivisione, più che alle politiche attuali di difese spesso astratte e impersonali dei diritti delle donne, sembra affidarsi la speranza di cambiamento dell’autrice. Se ancora oggi la voce femminile non parla nei megafoni ufficiali anche su temi che più la interpellano, quali il nascere e il morire, non è lo sconforto a vincere in questo libro. È invece la consapevolezza che la strada, già da molte aperta e battuta (anche attraverso sentieri diversi) può essere percorsa da altre che coraggiosamente vogliano attingere alla propria tradizione e cultura per convivere con l’inatteso, «l’impensato» come l’autrice nomina l’accadimento imprevisto, spesso legato alla mobilità del corporeo. E qui, inaspettatamente, compare un uomo che fa da maestro: è San Paolo, che di fronte all’inatteso cade disarcionato ma, grazie alla propria, ricchissima, tradizione religiosa, sa cogliere la grazia del nuovo e sa riscrivere sulla pagina bianca una prospettiva di ripresa e di più alta esperienza di libertà. Come il «ribaltone paolino» insegna, il seme della tra sformazione è nella stessa storia (sia che la si intenda scritta o non scritta da Dio) e non nelle leggi e nel potere. È questa l’avventura della mediazione, che è ascolto e verbalizzazione del vissuto esperienziale; viaggio faticoso, anche battagliero ma qualitativamente alto. Qui risuonano le immagini più belle del mercato, dove voci diverse e molteplici fanno circolare parole che dicono vissuti, si ricavano profitti anche da povere mercanzie, e persino una misera nana può permettersi senza vergogna alcuna di scambiare fili colorati, fili come discorsi già intessuti, magari con altre compagne di lavoro. È questa l’avventura dell’impensato femminile che può spaventare (come accadde con le streghe o le isteriche curate da Freud che raccontavano visioni impressionanti) ma anche far nascere qualcosa di nuovo come le donne, con la loro capacità generativa, hanno da sempre realizzato.
Antonella Cattorini Cattaneo